veronica franco

VERONICA FRANCO (1546-1591)

Nata a Venezia nel 1546, Veronica Franco fu avviata giovanissima alla professione di cortigiana dalla madre, che aveva esercitato la stessa attività.

Donna colta e appassionata, la sua fama di intellettuale fu pari a quella di cortigiana: nel 1580, ad esempio, pubblicò una raccolta di cinquanta Lettere, che Montaigne, durante il suo viaggio in Italia, ricevette in dono.

Nel 1580 fu giudicata dal tribunale del Santo Uffizio per un’accusa di stregoneria, dalla quale si difese abilmente, riuscendo ad ottenere l’assoluzione.

La sua fortuna letteraria continuò anche dopo la morte, avvenuta nel 1591 all’età di 45 anni. Le sue poesie furono incluse, nei secoli successivi, in diverse raccolte di versi e nel Novecento Benedetto Croce fu artefice di una vera e propria riscoperta critica della poetessa veneziana.

Io la amo per i forti sentimenti, la passione, la fierezza, lo spirito indomito

Una buona medicina dopo delusioni amorose.

Terze Rime

Spogliata, e sola, e incauta mi coglieste

Debil d’animo, e in armi non aperta,

e robusto, e armato m’offendeste

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Juana Inès de la Cruz

Juana Inès de la Cruz, letterata e studiosa, nonché maggiore poetessa barocca messicana, nelle sue composizioni coltivò tutti i generi letterari e tutti i tipi di versificazione. Conscia e fiera delle proprie capacità intellettive, suscitò grande ammirazione ma anche sentimenti di astio e inimicizia da parte del clero a causa della particolare vocazione per lo studio, sommata ad una imperdonabile lontananza dalla ricerca di mortificazione e perfezione spirituale.

Nonostante le invidie e le pericolose antipatie. Juana perseguì per tutta la sua esistenza lo scopo vero della sua vita, studiare e comporre versi, contravvenendo alle regole che la morale della chiesa le imponeva. Il suo ardire nel ribellarsi a tali regole scatenò un vero e proprio scontro per stabilire chi dovesse primeggiare. Evidentemente una semplice donna non poteva vincere, era anzi necessario zittirla con una punizione esemplare. Juana doveva tornare sui suoi passi : con l’abiura dovette rinunciare allo studio, alla conoscenza, alla scrittura, alla “vita mondana”, in definitiva alla vita, da quel giorno infatti si dedicò alle consorelle colpite dalla peste, morendo anch’essa contagiata dalla malattia nell’anno 1965.

Questa grande artista, colpevole di aver cercato di definire uno spazio per sé in un mondo culturale coloniale, premoderno, anti-intellettuale e maschile, è considerata da molti la prima femminista della storia americana, è stata eletta a icona di movimenti per la liberazione della donna e le vicissitudini della sua vita-oggetto di una riscoperta avvenuta soprattutto negli anni ’30- hanno ispirato numerose opere letterarie, sceneggiature cinematografiche, testi teatrali. Il ritrovato interesse perla drammatica esistenza della monaca ha certamente a che vedere con le similitudini del “Nuevo Mundo” in cui visse suor Juana con il “Primo Mondo”. Non sembra infatti che gli errori del passato rispetto alle guerre coloniali abbiano insegnato granchè, e anche il ruolo della donna rispetto ai tempi di Juana Inès è certamente migliorato, ma non tanto quanto ci si poteva aspettare, come dimostrano le incessanti violenze e umiliazioni subite da donne di ogni età in svariati contesti (privato, pubblici, politici).

La peor del mundo: così firmò, utilizzando il proprio sangue come inchiostro, la lettera di rinuncia definitiva agli studi, al termine del processo avviato dal vescovo Aguiar y Seijas contro di lei.

La vita e la poesia di Suor Juana Inès del la Cruz, indissolubilmente legate, giungono a noi attraverso i secoli, chiedono di essere lette e narrate. Di rivivere in nuove immagini e nuove forme.

Da “La peor del mundo, Juana Inès de la Cruz, prima femminista d’America”, tesi di laurea di Natasha Czertok in sociologia dell’arte, Università degli studi di Ferrara.


milena jesenkà

Nata nel 1896 in una distinta famiglia di Praga, studentessa non modello perché giovane inquieta e di talento, prima traduttrice di Kafka in ceco, Milena Jesenskà descrisse la Praga in fermento degli anni venti e trenta, fin dentro la Catastrofe che travolse tragicamente anche lei: deportata a Ravensbruck, lì morì il 17 maggio 1944.

Milena frequenta il liceo femminile Minerva di Praga, iniziando a crearsi quell’identità di intellettuale anticonformista, emancipata e vagamente “femminista” che caratterizzerà ogni sua azione. Terminato il liceo, non diventa medico come vorrebbe il padre ma, attratta da scrittori e letterati tedeschi ed ebrei, conduce un’esistenza libera e bohémien e si innamora di Ernst Polack. Per sfuggire al padre, che le vieta questa relazione, i due si sposano e fuggono a Vienna, ma la promiscuità erotica e sessuale di lui, allora diffusa nell’ambiente intellettuale, distrugge l’armonia del matrimonio, e conduce Milena a fare uso di stupefacenti.

Con un marito che non la desidera più e un padre che l’ha ripudiata, ella, tra gli altri lavori, inizia a scrivere articoli, ponendo le basi alla sua carriera di giornalista, ed a tradurre dal tedesco: saranno queste traduzioni e farle incontrare Franz Kafka.

Il loro amore sarà intenso, passionale ma difficile, contrastato dalla differenza di età e di personalità tra i due ma anche dalla malattia di lui, si incontreranno poche volte e proseguiranno tra lettere e telegrammi fino alla completa rottura, chiesta e decisa da Kafka, di cui ella racconterà nelle lettere scritte a Max Brod. Un amore che per Milena non finirà mai, sebbene ella abbia in seguito altri uomini e una figlia, prosegua la carriera giornalistica e diventi prima un’attiva militante comunista e, espulsa dal partito, si impegni poi per contrastare al massimo le persecuzioni razziali dei nazisti.

Milena morirà nel 1944 a 48 anni,  Margarete Buber Neumann ,sua compagna di prigionia, scriverà  il libro che avevano progettato di scrivere insieme, un libro per testimoniare l’orrore dei campi di concentramento e raccontare la vita dell’amica.

Mary Wollstonecraft

Mary Wollstonecraft (1759-1797)

Mary, che da ragazza s’era ripromessa di non sposarsi mai,  morì il 30 agosto del 1797 per febbre puerperale,  dieci giorni dopo aver partorito la figlia Mary (Mary Shelley, che sarebbe poi divenuta l’autrice del famoso romanzo di Frankenstein).

Voleva essere aiutata soltanto dalla levatrice, non avere maschi intorno , invece fu assistita da un medico negligente che le causò una infezione che le procurò la morte.

Aveva trentotto anni.

Mary Wollstonecraft era nata a Londra il 27 aprile del 1759 in una famiglia modesta. A diciannove anni aveva cominciato a lavorare, dapprima aprendo una scuola insieme alle sue sorelle, poi come istitutrice. Aveva anche iniziato a scrivere, riversando da subito nei suoi libri la presa di coscienza delle ingiustizie subite dalla donne, di cui fin da piccola si era resa conto, ribellandosi al padre violento che infliggeva maltrattamenti alla moglie e alle figlie.

Nel 1787 pubblicò il libro “Riflessioni sull’educazione delle figlie”, cominciò a collaborare con la rivista “Analitical Review” e a frequentare il circolo Johnson, che radunava artisti ed intellettuali.

Nel 1792, forte della convinzione che l’educazione fosse fondamentale per la liberazione della donne   pubblicò  il libro “Rivendicazione dei diritti della donna”.

Nel dicembre dello stesso anno  lasciò Londra per Parigi, nella Francia rivoluzionaria; qui incontrò Gilbert Imlay, un ufficiale dell’esercito americano e con lui ebbe una figlia. Ma subito dopo la sua nascita venne abbandonata. A causa di questo amore finito tentò due volte il suicidio.

Nel 1796 torno in Inghilterra, dove si legò al filosofo e saggista William Godwin. Qui iniziò a scrivere il romanzo “L’oppressione della donna”: interrotto a causa della morte nel settembre del 1797, è un romanzo prevalentemente biografico, ma è anche un documento sulla condizione femminile nel ‘700.

Nel romanzo Mary chiama il matrimonio “prostituzione legale”, denuncia le ingiustizie subite dalle donne, le esorta ad istruirsi e a ricercare l’indipendenza economica. Critica aspramente il sentimentalismo, una filosofia del sentimento dannosissima specialmente per le donne, che vengono incoraggiate a privilegiare le emozioni a danno della razionalità.

Fondamentali le sue asserzioni sull’uguaglianza politica e sociale fra i due sessi, l’individuazione del legame fra dipendenza morale e dipendenza economica, ma anche le critiche mosse al sistema, la denuncia della disparità fra i ricchi e i poveri, della condizione infelice  dei bimbi abbandonati, dell’inefficienza del sistema ospedaliero, e il pronunciamento a favore del divorzio non solo  in caso di crudeltà fisica o adulterio del marito, ma come libera scelta

Romanzo di denuncia sociale, “L’oppressione della donna” è anche la testimonianza personale della vita di una donna in grande anticipo sui tempi, orgogliosa, coraggiosa,  ribelle alle convenzioni, capace di grandi passioni amorose e fermamente convinta di voler essere padrona del proprio destino,  affermandosi in piena libertà ed autonomia. Una donna inaccettabile per i conformisti della buona borghesia e dell’alta società del suo tempo.

intervista a Beatriz Preciado

Traduco con piacere questa intervista alla filosofa Beatriz Preciado apparsa su kaosenlared.

Ringraziando Lafra e il suo articolo sul postporno.

Intervista a Beatriz Preciado: “La sessualità è come le lingue. Tutti possiamo apprenderne molte”

di Luz Sánchez-Mellado | El país

Si muove per il Centro Pompidou di Parigi come Pedro in casa sua. Lo scenario le va a pennello. Alta, androgina, alternativa. Sperimentale. Preciado non ha problemi ad esibire la sua interiorità per spiegarsi a se stessa e al mondo. Autrice del “Manifesto controsessuale”- una spesie di bibbia del movimento transgender o queer- e di “Testo tossico”- dove spiega gli effetti che provoca nella sua vita sessuale la autosomministrazione di testosterone- questa trentanovenne di Burgos vive come pensa e pensa come vive. In costante rivoluzione contro le norme che determinano politicamente il sesso, il genere, il modo di cercare e di ottenere piacere. Filosofa, attivista alternativa e professoressa all’Università Parigi VIII, ha ha appena vinto il Premio Anagrama de Enzayo con “Pornotopia”, un saggio sull’impero Play Boy.

Quando aveva nove anni qualcuno telefonò a sua madre e disse: “sua figlia è una virago”. Ha sofferto da bambina?

Andavo in un collegio di monache, però non ho mai avuto problemi a causa del fatto che ero diversa. Quando mi chiedevano cosa volevo essere da grande, rispondevo: uomo. Mi vedevo come uomo perchè loro avevano accesso alle cose che volevo fare: astronauta o medico. Non l’ho mai vista come una cosa vergognosa o traumatica, era qualcosa a cui credevo di avere diritto.

Da piccola avevo anche un salvadanaio per farmi il cambio di sesso.

Che riferimenti aveva a quel tempo: Burgos, primi anni ottanta?

Nessuno. Mi muovevo in un mondo in cui il riferimento era la parrocchia, immaginati.

Allora si è orientata per istinto?

Da bambina sì. La scuola media è stata fondamentale. Simona, una maestra con un figlio autistico, riunì dei bambini con problemi e creò una classe. Il gruppo G. Autistici, superdotati, strani. Otto marziani brutti e atroci. Terribili, ma coccolati. Adoravo i miei professori, erano molto aperti col mio modo di essere.

Da allora ad oggi, come sopportano i suoi genitori il suo attivismo sessuale?

E’ stato traumatico e continua ad esserlo. Mio padre era un imprenditore rispettabile. Mia madre sarta per spose. Sono figlia unica. Immagino che si aspettassero altre cose da me. Sono religiosi e di destra, come si è di destra a Burgos, in modo irriflessivo. In quel contesto sono stata ribelle, non perchè lo volessi, ma perchè qualsiasi cosa facessi scandalizzava. Io ero un ufo, sì, ma non l’ho vissuto come qualcosa da nascondere.

Da dove viene la sua ribellione, se non soffre di essere come è?

Per me la cosa più dura è vedere come la gente si lascia reprimere.

Allora è una ribellione solidale? Continue reading