Un lenzuolo contro la violenza sulle donne!

femminismoasud ci chiede di far sentire tutte la nostra voce contro un vero e proprio massacro di donne che non accenna a fermarsi

BASTA CON I FEMMINICIDI

BASTA CON LA CULTURA CHE LI PRODUCE

Esponi un lenzuolo alle finestre, scrivi quello che vuoi, macchialo di rosso.

Troppe donne muoiono per mano di un uomo. Troppe donne muoiono in italia di femminicidio. Potete contarle voi stessi su bollettino di guerra.

Ci sono donne che stanno proponendo di affiggere a Milano, nel punto in cui è stata ammazzata da un uomo, una targa che dica “Emlou Aresu, vittima del femminicidio”. Altre propongono di affiggere tante targhe in giro per l’italia quante sono le vittime di violenza maschile. C’è una proposta di manifestazione a Milano. Ci sono donne che hanno lanciato un appello a tutti/e i/le blogger affinchè scrivano qualcosa contro la violenza sulle donne.

Nel frattempo le donne continuano a morire. L’ultima uccisa si chiamava Mara Basso, lascia due figli di 7 e 10 anni, stava per separarsi.

Noi sappiamo che dove esiste qualcuno che giustifica un femminicidio o istiga odio contro le donne egli può essere giudicato moralmente responsabile per ogni femminicidio commesso.

Sappiamo dunque che è necessario rendere visibile l’opposizione alla violenza contro le donne. Da ciò nasce la proposta di mettere degli striscioni alle finestre.

“Io ne attacco subito uno alla finestra di casa mia. Cominciamo dalle nostre finestre. Riempiamo i balconi di lenzuola insanguinate. Ridiamo senso a quella abitudine tribale che voleva farci appendere le lenzuola con il sangue per fare vedere che le spose erano vergini. Ogni lenzuolo insanguinato rappresenta una donna morta ammazzata. Per emlou, per mara, per tutte.”

Andiamo ad appenderne uno anche noi. Ciascuno scriva quello che vuole. Serve mostrare la sindone per ogni corpo di donna trafitto, massacrato, ucciso. Da ora iniziano le giornate delle lenzuola intrise di sangue di donna!

femministe in resistenza, denunciano la repressione all’universita’ di tegugicalpa. honduras

Nel giugno del 2009 un golpe militare in Honduras, il primo di questo secolo, depone il presidente democraticamente eletto Zelaya, per insediare al suo posto Roberto Micheletti.

In tutto il paese ha inizio una fortissima resistenza che si protrae per mesi e che viene duramente repressa.  Ne fanno parte attivamente moltissime donne.

Il 29 novembre 2009 viene, con elezioni farsa, diviene Presidente il latifondista conservatore Porfirio Lobo. Elezione affrettatamente riconosciuta solo da Stati Uniti, Canada, Colombia, Perù, Costa Rica, Panama e pochi altri paesi e a tutt’oggi non ritenuta valida dagli altri stati latinoamericani e dal resto del mondo. L’Honduras torna indietro di almeno vent’anni. Squadroni della morte che colpiscono gli oppositori del governo di Tegucigalpa, latifondisti in guerra con le fasce più povere dei contadini, azzeramento della libertà di espressione e di informazione.

Ma a più di un anno dal golpe le forze democratiche di resistenza popolare riunite nel FNRP – Frente Nacional de Resistencia Popular dimostrano di essere ancora vitali. L’opposizione continua in tante forme diverse, e così la repressione.

da memoriafemminista una denuncia delle Femministe in resistenza:

Violenza e repressione nello sgombero all’Università nazionale autonoma.

Alla comunità nazionale e internazionale, le Femministe in Resistenza denunciano:

1- che oggi 3 di agosto 2010  il regime capeggiato di fatto da Porfirio Lobo Sosa, con l’avvallo di Julieta Castellanos, attuale rettore della Università Nazionale Autonoma dell’Honduras e il suo Consiglio, costituito tra gli altri da Olvan valladares e Cristiana Nufio, ha violentato l’autonomia universitaria, militarizzando il campus di Tegucicalpa durante il violento sgombero dei compagni del sindacato di questa istituzione, che insieme a studenti universitari portavano avanti uno sciopero della fame da 85 giorni.

2- che questa azione costituisce una grave violazione dei diritti umani dei sindacalisti, degli studenti e dei docenti, che sono stati repressi selvaggiamente.

3- che la polizia e i militari, con l’autorizzazione della Rettrice e del suo Consiglio, hanno invaso gli edifici universitari, scatenando la persecuzione di scioperanti, studenti e docenti, accompagnata da spari, gas lacrimogeni e violenza fisica, scatenando una guerra campale negli edifici e nei dintorni della Università Nazionale Autonoma dell’Honduras.

4- che in questo momento ci sono feriti vittime della repressione, una studentessa desaparecida, decine di intossicazioni da gas, mentre i corpi repressivi dello Stato hanno in loro potere studenti e sindacalisti.

Esigiamo che si garantisca la integrità fisica degli scioperanti, degli studenti e dei docenti che ancora si trovano all’interno della UNAH.

Esigiamo il rispetto della vita, sicurezza personale e il diritto di sciopero.

Esigiamo il rispetto della autonomia universitaria.

Esigiamo la cessazione immediata dell’ondata repressiva del regime contro il popolo honduregno.

Chiediamo alle organizzazioni solidali a livello nazionale e internazionale la immediata denuncia e condanna di queste nuove azioni repressive del regime.

NE’ COLPI DI STATO NE’ COLPI ALLE DONNE

Femministe in resistenza

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=re3mLbNts38[/youtube]



Le carceri sono fuorilegge. e voci di donne dal carcere

Collaborando con un’associazione che si occupa di carcere, sono in corrispondenza con dei detenuti. Qualche settimana fa, da un carcere del sud, uno di loro mi scrive che la grata della finestra della sua cella è arroventata, “ci si potrebbe cuocere una bistecca”; e tre o quattro volte al giorno manca l’acqua, bisogna farne scorta in delle bottigliette, se ci si vuole rinfrescare un pò; e il giorno prima hanno sentito arrivare un’ambulanza:  un suicidio.  Uno dei tanti.  Io penso che una cosa è la pena , un’altra è la tortura ( e non è detto che la pena debba essere carcere, una società “civile”, come questa non è, dovrebbe iniziare a pensare ad uscire dal sistema carcerario, pensare a delle alternative). Perchè di tortura si tratta. Le carceri scoppiano e sono illegali.

A questo proposito: da un paio di mesi  è stato lanciato un appello, “Le carceri sono fuorilegge”, per aprire una vertenza con le istituzioni perchè vengano rispettati i diritti dei detenuti e delle detenute.  Molte le adesioni da parte di associazioni e singoli, sia da fuori che da dentro il carcere. Chi volesse sottoscrverlo può mandare una mail a carta@carta.org.

Eccone il testo:

“In carcere non si rispettano le leggi. Chi non le rispetta fuori, viene messo dentro; chi mette dentro, le istituzioni democratiche, non le rispetta e basta. Quasi niente, nelle carceri, è come dovrebbe essere, funziona come dovrebbe funzionare, rispetta il dettato delle norme che dovrebbero regolare la vita penitenziaria. È trascorso quasi un anno dalla sentenza della Corte europea dei Diritti umani che ha condannato l’Italia per aver detenuto persone in meno di tre metri quadri. Una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, un’ipotesi di tortura o trattamento inumano o degradante. Oggi la situazione è peggiore di allora.

Il prossimo 20 settembre saranno dieci anni dall’entrata in vigore del Regolamento penitenziario, che guardava verso condizioni più dignitose di detenzione. In cinque anni era fissato il termine per adeguare le carceri ad alcuni parametri strutturali. Che ci fosse l’acqua calda, per fare solo un esempio. Ne sono passati dieci, di anni, e quasi ovunque gli edifici sono ancora fuori legge. Noi ci riteniamo da oggi in vertenza contro le istituzioni. Utilizzeremo ogni strumento legale a disposizione per far sì che lo Stato paghi il prezzo della propria illegalità.”

Antigone, A buon diritto, Carta

E  qui di seguito mi piace far sentire la voce di donne incarcerate.

Tutte le testimonianze sono tratte dal sito informacarcere .

“…il Tavor, ma che scherziamo, il Valium, ma che scherziamo, son bombe sono, la gente è stravolta, tanto vale che tu li dia una dose di Eroina tutti i giorni. Poi ci sono delle persone che prendono un sacco di Metadone, glieli scalano in una maniera troppo rapida, cioè… La sanità non funziona in carcere, assolutamente, come non funzionano tante altre cose, sanità in generale, cioè io ho parlato del tossico perché la maggior parte sono tossiche, la sanità non funziona, perché guarda se un nullatenente veramente che si debba comprare le medicine, a me mi sembra assurdo veramente, un Aulin, una pasticca per il mal di testa, te la devi comprare, capito, questo non mi sembra giusto è la cosa più banale il mal di testa, se ce l’hai i soldi e lavori bene te le compri, sennò ti tieni il mal di testa, e non è solo questo, è il fatto che quando…almeno com’era prima e anche adesso, se una persona si sente male al maschile e il medico è già di là a dare il soccorso e un’altra persona si sente male al femminile uno dei due deve morire, uno dei due deve morire, perché tra il maschile e il femminile c’è un bel pezzo di strada da fare, va bene?…”

Cinzia (dalla tesi: STORIE DI DONNE E DI CARCERE…di Marta Capecchi, anno accademico 2003/04) carcere di Sollicciano – sezioni femminili)

“Non credo di aver mai avuto bisogno di essere rieducata, a questo ci hanno pensato i miei genitori e credo che abbiano fatto un lavoro esemplare. Tutto ciò che ho imparato forse è che ci sono persone piene di sfaccettature e non sempre possiamo essere in grado di vederle tutte. Per il resto credo che sia il carcere ad aver bisogno di una rieducatina!”

Laura, Intervista degli Scout Prato al Femminile di Sollicciano – agosto 2006

“Sui muri ancora orrende pitture di draghi e di animali vari. Questo era il campo di pallavolo. Accanto ci sono gli spazi d’aria in uso. Sono gli stessi senza le erbacce, con cubi di cemento grezzo a formare panchine; spazio di pascolo degli internati; dove passeggiano è presente una tettoia e un cesso alla turca aperto con un rubinetto esterno per chi usa la finezza di sciacquarsi le mani.

Di fronte a questi spazi, un enorme palazzone storico; un parallelepipedo di cento metri circa di lunghezza. Accanto, placido, scorre l’Arno. Tutto nella tranquilla cittadina di Montelupo Fiorentino di cui non sto a decantare la storia.

Certo, in questo ospedale psichiatrico le cose non possono andare avanti così, un colpo al cerchio e uno alla botte. Ma c’è chi vorrebbe che si restasse in queste condizioni!

Il restauro semplicemente per renderlo abitabile(prima era una stalla), è stato compiuto solo in 1/3 dell’intera struttura. A quando gli altri lavori? Dove sono finiti i denari stanziati a questo scopo? Il tempo passa, i costi aumentano e intanto si parla di chiudere questo istituto di matti racchiuso in una vecchia magione di caccia dei medi e propriamente adatto ad altri usi. Si aspettano risposte, opinioni…e anche bla-bla-bla… perditempo.”

Stella 2008 Da Spiragli: Rivista dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, Gennaio – Febbraio – Marzo 2009 – Anno 9° – n° 45

“La mancanza di soldi per fornire ai detenuti farmaci che curano l’Hiv è un problema crescente nelle carceri. Mi tocca in prima persona, dato che sono affetta da questo virus.

Fortunatamente per me sono in una fase stabile e controllabile. Inoltre mi trovo in una struttura (la Casa a Custodia Attenuta di Empoli) dove sono tenuta sotto costante controllo.

Ma prima di arrivare qui, ho girato sette carceri, nei quali ero costretta a comprarmi i farmaci: non quelli retrovirali, parlo di vitamine, Dissenten e cose varie.

E’ veramente assurdo tutto questo perché bisogna tener conto che, nelle carceri ordinarie, non ti offrono possibilità di lavorare in modo continuato, di conseguenza di mantenerti. E  per chi, come me, non è seguito dalla famiglia diventa un vero tormento.

Si innescano meccanismi di contestazione, atteggiamenti che ti portano al delirio.

Quello che se ne ricava sono solo ritorsioni contro gli stessi detenuti, come ad esempio denuncie per aver maltrattato un medico incompetente o un agente poco informato ed indifferente verso gli stati d’animo del malato.

Mi chiedo come mai lo Stato non si rende conto che in carcere ci sono persone che soffrono già molto per la condizione in cui si trovano, nella quale sicuramente si sono messe con le loro mani, ma non per questo devono essere trascurate, specie in casi come il mio in cui la patologia è complessa e ha bisogno di costanti controlli e farmaci.

Io mi ritengo fortunata perché non necessito di alcun farmaco, ma ho vissuto indirettamente situazioni pressoché allucinanti, come ad esempio l’ora della terapia farmacologia in assenza dei farmaci salvavita, o meglio dire retrovirali, per cui ho visto amiche peggiorare di giorno in giorno.

Voglio solo dire infine, a chi di competenza, di farsi  un esame di coscienza e pensare che questo brutto male può, oggi come oggi, attaccare chiunque, per cui datevi da fare affinché, in carcere, non si debbano più vivere situazioni analoghe  a quella ce ho vissuto io indirettamente sulla pelle di alcune mie amiche.

Aggiungo un pensiero forse crudo ma reale: sarebbe utile diminuire le spese per gli psicofarmaci che tengono solo a soffocare le nostre emozioni e danno assuefazione; piuttosto sarebbe meglio aumentare i fondi per acquistare farmaci di cui non si può fare a meno perché servono per vivere!.”

Matilde Guarino (dal giornale: “Ragazze Fuori” –periodico della Casa a Custodia Attenuata Femminile di Empoli – Supplemento  n. 2 dell’aprile 2005 al n. 4 del dicembre 2004/gennaio 2005 di “Empoli”-Periodico dell’Amministrazione comunale)

“Sono una straniera come tante altre ragazze che si trovano in questo istituto con la voglia di rinascere in una società dove dicono che la legge è uguale per tutti, allora… vorrei vedere se questa legge esiste davvero. Se noi straniere cerchiamo un mondo diverso per le nostre famiglie è perché proveniamo da un paese dove il ricco è sempre più ricco e il povero è tragicamente povero, ed è allora che io mi chiedo se esiste davvero la possibilità di rifarci una vita inserita nella vostra società. E’ vero, abbiamo commesso un reato ma questo non vuole dire che siamo persone senza anima, senza intelligenza, senza un cuore e senza la voglia di riscatto e integrazione sociale.

Il giorno del mio processo è stata chiesta l’espulsione nel mio paese, perché? Mi chiedo il perché di questo egoismo verso di noi, lo straniero sa lottare per quello che è e per quello che vuole, penso che dare un’opportunità di rifarsi una vita è giusto per tutti. Il mio obbiettivo è quello di uscire di qui e lavorare per un po’ in Italia per dare un futuro tranquillo alle mie figlie. Non siamo delinquenti ma siamo persone in cerca di rinascita.”

Viviana, Sollicciano

“Sono Veronica, una ragazza spagnola di 24 anni. Ho un bellissimo bambino di cinque anni che si chiama Said, che vuol dire felicità. Sono due anni che non lo vedo e sto morendo di tristezza per questo motivo. Said è tutto per me. E’ la mia vita. Non sono stata io a dare la vita a lui ma lui a me, fin dal momento che l’ho vista per la prima volta.

Sicuramente vi state chiedendo, se amo tanto come dico mio figlio,come ho potuto fare quello che ho fatto? Quel che mi ha portata in carcere…. Io sapevo a cosa andavo incontro, ma era tanto il bisogno che avevo di avere quei soldi… Pensavo a quello che potevo fare con quei soldi, il mio sogno. Ma non per me, per mio figlio. Io volevo che lui avesse quello che io non ho avuto: una sua casa e un suo letto. So che questo non è tutto nella vita, ma io in quei momenti ero disperata.”

Veronica Z. Da: Ragazze Fuori – periodico della Casa a Custodia attenuata femminile di Empoli – aprile 2008

“La cella con tre persone è già stretta, io sono stata in celle con tre letti a castello o due e dall’altro lato ce n’entra solo uno perché a Sollicciano da una parte il muro è più basso. Con me in piedi un’altra persona passa perché io sono magra, ma se in piedi c’è una persona un po’ grassa non si passa. C’é piccolo armadietto per ognuna più piccolo armadietto per spesa, abbiamo televisione e un piccolissimo bagno con lavandino e gabinetto. Qualcuno attacca foto, poster, io no è inutile coprire i muri se la realtà è sempre lì, solo un mese prima di uscire ho attaccato due poster di spiagge della Colombia.”

Gloria (dalla tesi: STORIE DI DONNE E DI CARCERE…di Marta Capecchi, anno accademico 2003/04) ex detenuta carcere di Sollicciano – sezioni femminili

presidio per faith e ngom – bologna 2 agosto

PACCHETTO SICUREZZA?

La questura bolognese condanna a morte una donna che si ribella a uno stupro

Il 20 luglio la questura di Bologna ha deportato una ragazza nigeriana di 23 anni, Faith, proprio nel Paese dove era stata condannata a morte per aver reagito ad un tentativo di stupro da parte di un uomo ricco e potente.

Faith era stata rinchiusa nel Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di via Mattei a Bologna, dopo che i vicini avevano chiamato la polizia sentendo le sue grida di aiuto perchè un uomo cercava di violentarla.

La polizia ha pensato bene di arrestare lei solo perché non aveva il permesso di soggiorno. Dopo due settimane di detenzione è stata rimpatriata in Nigeria, dove potrebbe essere impiccata a breve da un governo corrotto e complice del peggior colonialismo occidentale.

E questo nonostante avesse già presentato domanda di asilo politico.

Benché l’Italia sia uno dei paesi promotori della moratoria contro la pena di morte, lo stato razzista italiano non ha esitato a consegnare ai suoi assassini una donna che ha saputo reagire alla violenza maschile, una donna da cui tutte abbiamo tanto da imparare.

Dopo questa vicenda, che segue purtroppo tante altre analoghe, sarebbe ora che ci si chiedesse di che genere di sicurezza blaterino i politici e perchè dovremmo delegare a questa gente e ai loro servitori in divisa la protezione delle nostre vite.

La deportazione di Faith è un monito contro tutte le donne che si ribellano alla violenza maschile.

Allora ci chiediamo che futuro possa aspettarsi Ngom, un’altra donna immigrata, senegalese e madre di sei figli, arrivata in Italia dodici anni fa dopo esser fuggita da un marito violento. Ngom, sempre in nome della “nostra sicurezza”, è da qualche giorno rinchiusa nel Cie di Bologna in attesa che un giudice di pace decida se accettare il ricorso contro l’espulsione o eseguire gli ordini della questura di La Spezia e rimandarla in Senegal dal marito-aguzzino.

Non smetteremo mai di dire che la nostra vera sicurezza è la solidarietà fra donne.

Per quanto tempo ancora intendiamo tollerare la presenza dei Cie – lager di Stato in cui le donne sono spesso sottoposte a ricatti sessuali, molestie e violenze per poi essere rimpatriate col rischio di essere addirittura uccise?

La nostra sicurezza non ha bisogno di confini, né di lager, né di passaporti

LUNEDI’ 2 AGOSTO PRESIDIO ALLE 12 IN PIAZZA ROOSVELT A BOLOGNA

Mai più schiave!

(Chi non potesse partecipare al presidio ma intendesse comunque esprimere il proprio parere sulle connivenze tra l’Italia e i Paesi di provenienza di Faith e Ngom per quanto riguarda le deportazioni: ambasciata nigeriana – Roma 06683931; ambasciata senegalese – Roma 066865212/066872353)

da noinonsiamocomplici

con il sari rosa

A chi interessa: da qualche mese è’ stato tradotto in italiano il libro scritto dalla fondatrice delle ormai famose GULABI GANG

Sampat Pal

CON IL SARI ROSA

ed. PIEMME

Un giorno, quando Sampat è ancora piccola e ha i piedi a mollo in una risaia, vede passare un gruppo di bambini. Ordinati e puliti, non sono certo diretti al lavoro nei campi. Vanno a scuola, le dice qualcuno. Sampat non sa bene cosa sia la scuola, ma sa che solo i ricchi ci vanno. Sampat appartiene a una delle caste più basse dell’India, è quasi un’intoccabile, e vive in un misero villaggio dell’Uttar Pradesh. Il suo destino sembra segnato. Ma lei è una bambina sveglia e quel giorno decide di andare a scuola con gli altri. Nulla può però contro le millenarie tradizioni del suo paese. A dodici anni viene data in sposa a un uomo più vecchio. Da quel momento la consuetudine vuole che lei sia silenziosa e si sottometta al marito, alla suocera e ai soprusi di chiunque appartenga a una casta più elevata. Sampat però non sopporta le prevaricazioni e non accetta di essere considerata inferiore a nessuno. Quando la suocera la caccia di casa perché non ha accettato di subire in silenzio l’ennesima angheria, Sampat si mette a cucire abiti che poi vende, rendendosi indipendente. In poco tempo diventa la paladina degli oppressi, soprattutto delle donne. Che in migliaia, da tutta l’India, si uniscono a lei per dare il via a una rivoluzione rosa, dal colore del sari che hanno scelto come divisa. Un’onda rosa che fa paura a chi non vuole che le cose cambino.