no al c.i.e. “umano” della toscana

NO ALLA COSTRUZIONE DI UN C.I.E. IN TOSCANA!

In Italia ci sono 13 galere chiamate C.I.E. (Centri di Identificazione ed Espulsione). 13 campi di concentramento in cui sono rinchiuse le persone che scappano dalla guerra, dalla fame e dall’oppressione che le colpisce nel loro paese. Chi riesce a raggiungere le coste del belpaese non muore affogato nel mar Mediterraneo ricacciato indietro dalla cosiddetta politica dei respingimenti (negli ultimi anni migliaia sono i migranti assassinati dalla violenza degli stati), spesso finisce prigioniero in una di queste strutture, dove soprusi, maltrattamenti e pestaggi sono all’ordine del giorno.

Il ministro degli interni Maroni ha dichiarato che entro il 2010 anche la Toscana dovrà avere un C.I.E. ed il presidente della regione Rossi da poco eletto ha subito acconsentito, ovviamente: “Yes, we can!”. D’altra parte già nel suo programma prima delle elezioni (tra l’altro sottoscritto da Sinistra e Libertà e Rifondazione) il candidato del PD apriva a questa possibilità.

Chiaramente, dato che verrà creato in una regione “di sinistra” sarà un “lager umano” (ormai ci hanno abituato a questi abnormi ossimori, a queste contraddizioni in termini, al fare le stesse cose della destra dandogli un altro nome,  più democratico e caritatevole, quando invece la sostanza non cambia).

Dice il presidente della regione Rossi:

“C’é un volontariato in Toscana, anche di orientamento cattolico  che può proporsi alla gestione di queste strutture”. Quanto all’apertura dei Cie, profilata dal ministro dell’Interno Roberto Maroni in tutte le regioni dove ancora non sono presenti, Rossi ha chiarito che “la prima mossa tocca al governo nazionale: quando ci sarà fatta una proposta noi diremo le nostre condizioni”.

“Non devono essere – prosegue il candidato del Pd – luoghi di detenzione preventiva; preferiamo che siano centri dove debbano essere rispettati i diritti umani e che siano collocati in strutture non grandi ma tendenzialmente piccole. Penso anche che bisogna fare in modo che in queste strutture non si stia per più di due mesi, e penso infine che per alcune situazioni che sono identificabili, sia possibile proporre processi di regolarizzazione, ovviamente non per chi si è fatto carico di reati gravi”.

Invitiamo a partecipare a tutte le iniziative contro la costruzione di un CIe in toscana. Intanto segnaliamo i presidi organizzati dal Circolo anarchico fuori riga di Serravezza (Lucca):

PRESIDII E MOSTRA CONTRO I C.I.E.

SABATO 22 MAGGIO 2010 DALLE ORE 16 IN VIA DELATRE A SERAVEZZA

SABATO 29 MAGGIO 2010 DALLE ORE 10 IN PIAZZA MATTEOTTI A QUERCETA

SABATO 5 GIUGNO 2010 DALLE ORE 16 IN PIAZZA DUOMO A PIETRASANTA

Inoltre ricordiamo anche il presidio che si terrà l’8 GIUGNO dalle 14.30 a MILANO, sotto il tribunale, contro i Cie e le deportazioni e in solidarietà con Joy ed Hellen.

Parlano le donne

da mujeres libres

Invito alla partecipazione e alla presentazione di contributi per l’iniziativa pubblica “Parlano le donne”

DONNE100CELLE &DINTORNI comitato

PERCHÈ UN’INIZIATIVA PUBBLICA ITINERANTE DI DONNE

“Parlano le Donne”, nel VII Municipio, nasce dall’esigenza di far emergere e portare all’attenzione le voci delle donne nei territori: le loro esperienze di vita, di lavoro, di solidarietà, di trasformazione; ma anche i problemi, i disagi vissuti nelle relazioni, nel lavoro, nella comunicazione, nelle condizioni che ostacolano la piena espressione e autonomia come donne.

“Parlano le Donne” ha come finalità quello di creare nuove e più ampie tessiture tra le diverse realtà di donne attraverso momenti condivisi di riflessione per l’affermazione dei diritti delle donne.

Per questo invitiamo le realtà di donne singole e organizzate sul territorio romano (assemblee di donne dei consultori, operatrici dei servizi sociali, associazioni di donne migranti, operatrici dei centri anti-violenza, collettivi di donne e studentesse, associazioni di donne del privato sociale, donne delle organizzazioni sindacali, operatrici della rete delle biblioteche) a presentare contributi e proposte sulle seguenti 5 aree tematiche con l’obiettivo di aprire un confronto e individuare nuove forme di cooperazione:

. Donne e Violenza (psicologica, fisica, culturale, istituzionale)

. Donne, Salute, Eco-femminismo (servizi e risorse, criticità, buone pratiche per noi e per il pianeta)

. Donne e Reti Sociali (alternativa all’idea e alle pratiche di sicurezza intesa come controllo sociale e repressione, capacità delle donne di fare rete su problematiche comuni, esperienze di donne migranti e italiane, solidarietà, informazione, prevenzione e auto-difesa)

. Donne e Comunicazione (come parlano delle donne, come parlano le donne di loro stesse, rappresentazioni e stereotipi, le pratiche comunicative di donne e lesbiche)

. Donne, Lavoro e Giustizia Sociale (discriminazione, precariato, diseguaglianza, disoccupazione, povertà, esperienze di organizzazione ed emancipazione economica)

I contributi possono essere presentati:

– in forma scritta (dossier; articoli; analisi tematiche; buone pratiche, esperienze progettuali, organizzative e di lotta)

– in forma di testimonianza diretta

– in forma di documentazione audio-video-fotografica

– interventi artistici

L’iniziativa pubblica si svolgerà domenica 20 giugno 2010 dalle ore 15.30 alle 21.00 lungo via dei Castani, quartiere Centocelle.

L’invio dei contributi potrà avvenire via mail all’indirizzo donne100celledintorni@gmail.com durante il mese di maggio, oppure direttamente domenica 30 maggio alle ore 17.00 durante l’assemblea organizzativa che si terrà presso il Laboratorio Sociale 100celle in Viale della Primavera 319b

Ci piacerebbe molto costruire insieme il percorso organizzativo che porterà all’iniziativa del 20 giugno, chiediamo quindi a tutte le interessate di contattarci ai seguenti numeri:

338-5749019 (Marina); 347-9286707 (Gabry); 340-5545957 (Franca);

339-8087566 (Antonella)

Il COMITATO DONNE 100CELLE E DINTORNI nasce, in modo spontaneo, durante la preparazione della manifestazione contro la violenza patriarcale del 24 novembre 2007 per ricreare e reinventare una rete di solidarietà di donne nella vita quotidiana.

Il comitato e’ luogo di incontro, di dibattito, di solidarietà di scambio e di trasformazione della realtà delle donne, di ogni cultura e provenienza, che vivono nella periferia sud-est di Roma

Il gruppo si costituisce come luogo di confronto tra donne che possa far convergere in momenti aggregativi lo sviluppo di attività di intervento politico-sociale, di tutela dei diritti e di promozione delle soggettività femminili sul territorio, partendo da una dimensione locale verso una concreta solidarietà internazionale.

http://donnedi100celledintorni.wordpress.com/

Bety Cariño Trujillo

Bety Cariño Trujillo

Attivista dei diritti umani in Oaxaca (Messico) fu uccisa in un attacco paramilitare il 27 aprile 2010 mentre prendeva parte a un’azione non violenta in difesa dei diritti umani.  Bety era direttrice del Centro de Apoyo Comunitario Trabajando Unidos (Cactus) e integrante della Red de Radios Indígenas Comunitarias del Sureste mexicano

Era parte di una carovana che cercava di rompere un blocco imposto a una vulnerabile comunità da paramilitari pro-governatovi in Oaxaca. Insieme a lei fu ucciso anche l’osservatore internazionale, Yiri Antero Jakala, di nazionalità finlandese.

Bety Cariño Trujillo, difendeva i diritti umani da oltre 15 anni e lavorava nell’accompagnamento comunitario nella regione della mixteca e nella formazione delle popolazioni indigene della regione.

Ha inoltre promosso la creazione di reti di economia solidale in varie comunità della zona e con altre organizzazioni, ha creato la Red de Radios Indígenas Comunitarias del Sureste Mexicano.

aspettando i sottotitoli by lilli sotto la traduzione del discorso del video:

Le gambe ben ferme sul suolo, la testa ardita, dignitosa, la mente fredda e il cuore ardente.

Sorelle e fratelli, con la mia voce parla la voce delle sorelle e dei fratelli del mio villaggio, nell’Oaxaca ribelle, in questo grande paese che si chiama Messico.

In queste righe non posso parlare di me se non parlo delle altre e degli altri perchè io sono solo se esse ed essi sono, allora siamo noi.

Sorelle e fratelli, queste donne che siamo, figlie, sorelle, madri, compagne, maestre, indigene, mixteche, oaxaquegnas, messicane, attiviste, comunicatrici, donne che stanno guidando i propri villaggi contro il saccheggio della nostra madre terra a beneficio delle grandi corporazioni multinazionali del capitale finanziario. Oggi nelle nostre voci, nelle nostre lotte, nelle nostre mani continuano a vivere i legittimi aneliti di giustizia sociale della rivoluzione messicana. È la stessa lotta che 200 anni fa portò avanti Morelos, è la stessa di Magon e del grande Zapata. Nel Messico attuale è la lotta dell’Esercito Zapatista di liberazione Nazionale. Lotta che è costata la vita a migliaia di messicani e messicane. Tutti loro: gente povera, “de abajo”, che ha lottato, e il luogo che gli ha lasciato la storia continua ad essere l’esclusione e l’oblio.

Oggi i/le giovani, i popoli originari e le donne sono al primo posto in questa catastrofe. Il trattato del libero commercio, gli accordi commerciali con la complicità dei nostri malgoverni, hanno fatto sì che i nostri campi siano in uno stato di rovina e disastro, vittime di questa apertura commerciale indiscriminata, delle coltivazioni transgeniche, di queste …………transnazionali che si trasformano nelle grandi zone minerarie, nei grandi parchi eolici, nei grandi bacini che generano energia elettrica, per altri, ma non per noi, veri padroni di questa terra, nelle fibre ottiche che portano luce in altri luoghi.

Oggi vogliamo dirvi che tutto questo ha portato a una migrazione forzata di milioni di nostre sorelle e fratelli che, come diceva mio nonno,, “devono andarsene per potersi fermare”. In messico si continua a negare ai popoli originari il diritto all’autonomia, il diritto all’esistenza. E noi oggi vogliamo vivere un’altra storia, ci mostriamo e diciamo basta.

Oggi vogliamo dirvi che avete paura di noi perchè non abbiamo paura di voi, nonostante le vostre minacce, le vostre calunnie e le vostre ostilità continuiamo a camminare verso un sole che pensiamo brilli con forza, pensiamo che si avvicini il tempo dei villaggi, il tempo delle donne ribelli, il tempo dei popoli “de abajo”. La lunga notte di 500 anni non è ancora terminata. La Nińa. La Pinta e la Santa Maria, oggi portano il nome dei Verdrolla, Endeza e Gameza, oggi per tutto il nostro territorio nazionale corre il malcontento. Perciò si fa improrogabile la presenza e la partecipazione di noi donne che difendiamo giorno dopo giorno i diritti umani. Vogliamo costruire un mondo di giustizia e dignità, senza nessun tipo di discriminazione.

Noi oggi sviluppiamo un profondo ed esteso processo di organizzazione, mobilitazione, analisi, discussioni, consenso che ci aiuti a costruire un mondo dove abbiano posto molti mondi.

Noi siamo il risultato di molte lotte, portiamo nel sangue l’eredità guerriera delle nostre nonne, le nostre radici lo esigono e le nostre figlie ce lo gridano.

Sorelle, fratelli, apriamo il cuore come un fiore che aspetta il raggio di sole al mattino, seminiamo sogni e raccogliamo speranze, ricordando che questa costruzione si può fare solo in basso, a sinistra e dal lato del cuore.

appello per una settimana di mobilitazione contro le deportazioni-1-6 giugno 2010

dahttp://noinonsiamocomplici.noblogs.org/

Fonti: NoBorderStopDeportation

Chiamata per una Settimana di azioni contro la Macchina delle Deportazioni

1 – 6 giugno 2010

Le deportazioni sono diventate una parte integrale del sistema delle Regime europeo sull’immigrazione. Centinaia di rifugiati/e e di migranti sono forzatamente deportati/e ogni giorno per fare ciò che le persone hanno fatto per milioni di anni: emigrare alla ricerca di una vita migliore, scappare dalla povertà, dalle persecuzioni, dagli abusi, dalle discriminazioni, dalla guerra etc. Il diritto di viaggiare e vivere dove si vuole è negato a tutti e tutte coloro che hanno un diverso colore della pelle, passaporto e conto in banca. Queste persone sono trattate come ‘criminali’ e incarcerati in prigioni speciali che chiamano con altri eufemismi (centri di rimozione, case rifugio e così via). Gli abusi razzisti e sessisti e la violenza fisica, agiti dalla polizia che si occupa di immigrazione e dalle guardie private, sono istituzionalizzati e legittimati dall’uso della forza nelle operazioni di deportazioni

Dietro le deportazioni si nasconde un misto di razzismo, nazionalismo e imperialismo in un contesto di capitalismo globale: mentre il capitale e i cittadini/e dell’Unione Europea e degli altri paesi del “primo mondo” sono liberi di viaggiare dove vogliono, le/gli altri/e dal lato sbagliato dei confini costruiti artificialmente, i cui paesi sono fatti a pezzi dai privilegi europei e dal capitalismo e dalle conquiste imperialiste, sono illegali, criminalizzati e impediti nell’esercizio dei diritti fondamentali. Loro semplicemente cessano di essere persone; diventano “immigrati illegali”, che si “trattengono troppo a lungo” [overstayers] e “mancati richiedenti asilo” di cui si può fare a meno quando non si ha più bisogno di sfruttare il loro lavoro o quando cercano di rivendicare i propri diritti. Come conseguenza, le lotte comuni e le comunità sono divise e prevale una cultura di sospetto e della sorveglianza.

Quando gli ordini di deportazione sono emanati, fa comodo dimenticare le cause dell’immigrazione. Le armi prodotte in Occidente e i conflitti armati, le guerre di aggressione alla ricerca di petrolio e di altre risorse naturali, i regimi repressivi appoggiati dai nostri democratici governi, i cambiamenti climatici e la sottrazione delle terre… tutto ciò può essere rintracciato all’interno delle nostre economie capitaliste, dello stile di vita consumistico e degli interessi imperialisti. La lotta contro le deportazioni non è solo una singola campagna: le persone scelgono o sono forzate a migrare per varie ragioni.

Per far funzionare il sistema dei voli di deportazione, i governi europei appaltano ad una serie di privati o semi-privati il lavoro sporco che sarebbe toccato a loro. Le compagnie aeree sono un ingranaggio centrale della macchina delle deportazioni. Non solo sono una delle prime cause che contribuiscono alla morte del pianeta, ma molte compagnie aeree, nella loro ricerca di profitto, sono contente di portare persone verso una possibile morte – sia essa una deportazione individuale o di massa. Gli interessi dietro la macchina delle deportazioni includono altri tipi di opportunisti, quali le compagnie che provvedono al trasporto e all’accompagnamento durante le deportazioni forzate e le compagnie di sicurezza delle multinazionali, come Serco e G4S, che gestiscono le prigioni per immigrati/e e portano avanti le deportazioni a nome delle autorità per l’immigrazione.

Inoltre, ci sono agenzie fantasma e inspiegabili, agenzie inter-governativei, come l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne (Frontex) e l’Organizzazione Internazionale per la migrazione (IOM), il cui ruolo è diventato sempre più influente negli ultimi anni e con le quali i governi europei cercano di portare avanti operazioni unitarie e coordinate. Questo non solo per risparmiare soldi, ma anche per mettere le deportazioni in mano a corpi europei e internazionali, che spingono la responsabilità su un altro livello al di là dei governi nazionali e delle autorità per l’immigrazione.

Infine, La Frontex ha recentemente assunto ulteriori poteri per le deportazioni di massa attraverso voli charter a nome dei governi europei, comprando equipaggiamento e sperimentando nuove tecnologie per il controllo dei confini dell’EU. Dopotutto, un super stato, razzista e imperialista, come Fortresse Europe ha bisogno di un esercito mercenario come Frontex per proteggere i propri confini artificiali.

Deportati e deportate, inclusi bambini/e, sono spesso ammanettati e accompagnati dalla sicurezza come criminali pericolosi (l’etichetta “criminale” è usata da chi è al potere). Ci sono stati numerosi segnalazioni di maltrattamenti fisici e abusi razzisti e sessuali, che uomini e donne hanno subito da parte delle guardie per l’immigrazione o degli “accompagnatori” privati durante le deportazioni (sia individuali che di massa). La proposta di avere qualcuno/a che monitori i diritti umani sui voli per le deportazioni, come ha recentemente suggerito un membro della Commissione europea, può impedire alcune di queste pratiche ma può anche legittimare le brutalità della deportazione stessa.

Siamo consapevoli che resistere contro le deportazioni è un percorso continuo e non confinato ad alcuni giorni o a settimane di azioni: le persone cercano di attraversare i confini in condizioni pericolosissime ogni giorno; gli scioperi della fame e le lotte nelle prigioni per immigrati; i/le deportati/e e i passeggeri consapevoli che si rifiutano di sedersi tranquillamente a bordo di un volo che passa inosservato; le comunità che si uniscono per difendere i loro membri; le proteste regolari e azioni contro varie componenti della macchina delle deportazioni… e molto altro ancora deve essere fatto perché milioni di persone continuano ad essere forzatamente deportate ogni giorno.

Questo appello è rivolto a tutti/e coloro, individualità e gruppi in Europa, che vogliano unirsi in una settimana di azioni decentralizzate e coordinate contro la macchina delle deportazioni nella prima settimana di giugno 2010. Questo appello è rivolto a tutti/e i migranti e rifugiati e chi li sostiene dentro e fuori l’Europa. Organizziamoci nelle nostre realtà locali in azioni o proteste durante la settimana con un unico grido:

• STOP ALLE DEPORTAZIONI!

• NO ALLA FORTEZZA EUROPA!

• LIBERTÀ DI MOVIMENTO PER TUTTI  TUTTE!

storie di donne migranti centroamericane

riportiamo da global project:

Forum a San Cristobal de Las Casas

Storie di donne migranti centroamericane

La doppia discriminazione

Utente: orsetta

10 / 5 / 2010

Negli anni ’50 Giovanna, una mia lontana parente emigrata in Argentina, decise di tornare in Italia. Il marito non rispettò la sua promessa: non la raggiunse in Europa, le lasciò i figli da crescere e si costruì una nuova famiglia in Argentina. Giovanna è quella che si definisce una “vedova bianca”.

Anche Maria è una vedova bianca. Si sposò incinta nei primi anni ’80, a soli tredici anni, e poco dopo il marito lasciò la piccola comunità del Guatemala in cui vivevano per emigrare negli Stati Uniti. Inizialmente scriveva e mandava soldi, poi sparì. Maria continuò a vivere sotto l’ombra invisibile del marito, spiata e controllata dai parenti e dal resto della comunità. Lavorava la terra per mantenere il figlio, ma non aveva titoli di proprietà su di essa. Le donne lavorano la terra, ma solo gli uomini la possono possedere.

Sei anni dopo l’abbandono del marito, Maria rimase incinta. Se l’avesse scoperto la sua comunità l’avrebbe giudicata ed emarginata: una vedova bianca non ha diritto ad una vita sessuale e sentimentale. “Nascose la sua gravidanza anche a me, che sono sua sorella”, mi dice Petronia fra le lacrime. Pochi mesi dopo il parto, la vergogna spinse Maria a scappare negli Stati Uniti, lasciando il figlio a Petronia. La disgregazione familiare è una delle conseguenze della migrazione, e a sua volta causa altri fenomeni sociali come la violenza giovanile, la tossicodipendenza e la prostituzione.

Qualche anno dopo anche Petronia decise di rifugiarsi negli Stati Uniti, lontana dalle violenze del marito. Come molte altre migranti trovò poca fortuna e tanta infelicità, che la rispinsero alla sua comunità di origine.

Petronia oggi fa parte della Commissione per i Diritti della Donna, un collettivo di Huehuetenango (Guatemala). L’ho incontrata a San Cristobal de Las Casas (Messico), durante il Forum “Donne, salute e migrazione”, organizzato dall’Associazione Civile FoCa. Uno spazio in cui dal 12 al 14 aprile si sono incontrate più di quaranta attiviste per i diritti della donna di vari stati del Messico e Centroamerica.

Sono tante le storie che sono state raccontate durante il forum. Storie di donne che rimangono mentre il marito se ne va, donne che emigrano e donne che tornano, come Giovanna, Petronia e Nancy.

Di Nancy me ne ha parlato Ofelia, che fa parte di un’organizzazione femminista della sierra di Guerrero, nel sud del Messico. Nancy partì dalla sua comunità per percorrere il deserto che divide il Messico dagli Stati Uniti e passare la frontera. Era sola ed incinta di tre mesi. Fu rapita dal pollero – il caronte che la doveva transitare verso il sogno americano – che la picchiò e violentò fino a farle perdere il bambino. Fu rilasciata quando i suoi parenti negli Stati Uniti pagarono il riscatto, ma non riuscì mai a raggiungerli, e dopo un periodo trascorso a Tijuana tornò alla sua comunità.

Molte donne che come Nancy si spostano verso nord finiscono per fermarsi in luoghi che dovevano essere solo di transito. In fuga da paesi poverissimi, si ritrovano a vivere in regioni altrettanto povere, in cui vengono sfruttate da chi si approfitta della loro condizione di indocumentate. Nello stato messicano del Chiapas, il 90% delle prostitute sono immigrate provenienti dai paesi centroamericani.

Le donne che migrano sono doppiamente discriminate: in quanto migranti e in quanto donne. Quante siano esattamente non si sa, non ci sono statistiche nè registri ufficiali. Non si sa nemmeno quante siano le bambine con una storia simile a quella di Rosa.

A 9 anni Rosa, che viveva in Costa Rica con la sua famiglia emigrata dal Nicaragua, fu violentata da uno sconosciuto e rimase incinta. Malgrado riportasse delle gravi infezioni e il suo piccolo corpo non fosse in grado di reggere una gravidanza, per abortire fu costretta a ritornare nel suo paese, fuggendo quasi di nascosto dal Costa Rica con la sua famiglia. A 15 anni Rosa rimase nuovamente incinta, questa volta a causa degli abusi commessi dal padre.

“La violenza è causata dai ruoli di potere assegnati socialmente”, dice Maria José dell’organizzazione costaricense CEFEMINA. Questi possono creare una catena della violenza: l’uomo, umiliato e sfruttato sul lavoro, commette violenza sulla propria moglie. La donna, frustrata, picchia il figlio, che a sua volta si sfogherà sul fratello più piccolo, il quale non potrà far altro che prendersela col proprio cane.

L’analisi di Maria José e delle altre attiviste intervenute al forum è che l’attuale sistema economico, capitalista e patriarcale, crea la discriminazione che viene riprodotta dalle persone attraverso il loro comportamento. La discriminazione genera poi violenza.

Per creare fratture nel meccanismo violenza/discriminazione, le organizzazioni e i collettivi presenti hanno deciso di formare la Rete Mesoamericana Donne Salute e Migrazione, che permetterà un coordinamento tra le azioni in difesa dei diritti della donna nei vari paesi. I diritti che, come ci ha ricordato la guatemaltecaClara, si devono esigere e non supplicare.