Il brutto anatroccolo

il brutto anatroccolo

IL BRUTTO ANATROCCOLO (fiaba magiari)

Ci si avvicinava alla stagione del raccolto. Le vecchie facevano bambole verdi con le foglie di frumento. I vecchi riparavano le coperture. Le ragazze ricamavano fiori rosso sangue sugli abiti bianchi. I ragazzi cantavano mentre rivoltavano il fieno dorato. Le donne tessevano ruvide camicie per l’inverno in arrivo. Gli uomini erano occupati a raccogliere i frutti che i campi avevano donato e a zappare. Il vento cominciava a far cadere le foglie, ogni giorno di più. E giù al fiume c’era una mamma anitra che nel suo nido covava le uova.

Tutto procedeva nel migliore dei modi per mamma anitra, e alla fine una dopo l’altra le uova presero a tremare e a vacillare finchè i gusci si schiusero, e ne uscirono barcollando i piccoli anatroccoli. Ma restava un grosso uovo, lì immobile come una pietra.Arrivò una vecchia anitra, e mamma anitra le mostrò i suoi piccoli. “Non sono graziosi?”. Ma l’uovo non ancora dischiuso attrasse l’attenzione della vecchia anitra, che cercò di dissuadere mamma anitra dal continuare la cova.

“E’ un uovo di tacchino” esclamò la vecchia anitra. Ma mamma anitra pensò che aveva già covato tanto e non le sarebbe costato niente continuare ancora un po’. Alla fine il grosso uovo prese a tremare e a rotolare. Si schiuse e ne spuntò una grossa creatura sgraziata. Aveva la pelle tutta segnata da sinuose vene rosse e blu, i piedi erano di un porpora chiaro e gli occhi di un rosa trasparente. Mamma anitra lo osservò attentamente. Non potè trattenersi: lo definì proprio brutto. “Forse è davvero un tacchino” pensò preoccupata. Ma quando il brutto anatroccolo entrò in acqua con gli altri piccoli, vide che nuotava benissimo. “Sì è proprio mio, anche se ha un aspetto strano. Alla luce giusta…è quasi carino”.

Così lo presentò alle altre creature della fattoria, ma un’altra anatra beccò il brutto anatroccolo sul collo. Mamma anatra riassettò le piume del brutto anatroccolo leccandogliele tutte per bene. Gli altri fecero di tutto per tormentarlo. Lo attaccarono, lo morsero, lo beccarono gli gridarono contro. E di giorno e di notte aumentavano i tormenti. Lui si nascondeva, si scansava, camminava zigzagando, ma non sfuggiva. Era al massimo dell’infelicità.

Inizialmente la madre lo difese, ma poi anche lei si stancò della situazione ed esclamo disperata “Desidero soltanto che tu te ne vada”. E così il brutto anatroccolo fuggì. Corse e corse finche non giunse a una palude. Là giacque sul bordo, con il collo allungato, bevendo di tanto in tanto un po’ d’acqua. Di tra i giunchi lo osservavano due paperi. Erano giovani e pieni di sé.”Tu, brutto coso, non puoi mica venire con noi, ci sono un branco di giovani oche che aspettano solo di essere scelte”. D’improvviso risuonarono dei colpi e i paperi caddero con un tonfo e l’acqua della palude divenne rosso sangue. Il brutto anatroccolo si mise al riparo.

Finalmente sulla palude tornò la quiete e l’anatroccolo volò il più lontano possibile. Al crepuscolo raggiunse una povera capanna, con più crepe che mura. Là viveva una vecchia cenciosa con il suo gatto spettinato e la gallina strabica. La vecchia fu felice di aver trovato un’anatra. Forse farà le uova, pensò, oppure possiamo sempre mangiarla. Così l’anatroccolo restò ma il gatto e la gallina lo tormentavano sempre. Alla fine fu chiaro che lì l’anatroccolo non avrebbe trovato pace e quindi se ne andò per vedere se trovava qualcosa di meglio lungo la via.

Arrivò a uno stagno e mentre nuotava sentì che l’acqua diventava più fredda. Su di lui volò uno stormo di creature, le più belle che avesse mai visto, gli lanciarono delle grida e a sentirle il cuore gli battè forte e si spezzò. Lanciò un urlo che mai gli era uscito dalla gola. Non aveva mai visto creature tanto belle e non si era mai sentito così infelice. Si girò e rigirò nell’acqua per osservarle mentre volavano, fino a sparire. Era fuori di sé perché provava un amore disperato per quei grandi uccelli bianchi, un amore che non riusciva a comprendere.

D’improvviso prese a soffiare sempre più forte un gran vento gelido per giorni e giorni, e cominciò a cadere la neve. I vecchi rompevano il ghiaccio nei secchi del latte, le vecchie filavano fino a tarda notte. Le madri nutrivano fino a tre bocche a lume di candela, e gli uomini andavano a cercare le pecore sotto il cielo bianco di mezzanotte. I giovani si immergevano fino al petto nella neve per mungere, e le ragazze immaginavano di vedere i volti dei bei giovanotti nelle fiamme del fuoco mentre cucinavano. E giù allo stagno l’anatroccolo doveva nuotare sempre più velocemente in tondo per conservarsi un posto nel ghiaccio.

Una mattina l’anatroccolo si ritrovò congelato e stretto nel ghiaccio e fu allora che sentì che sarebbe morto. Fortunatamente passò di lì un fattore e liberò l’anatroccolo spezzando il ghiaccio con il suo bastone, lo sollevò, se lo mise sotto il cappotto e si avviò a casa. Alla fattoria i bambini si avvicinarono ma lui aveva paura. Volò sulle travi, facendo cadere tutta la polvere sul burro, da lassù si tuffò dritto nel secchio del latte e poi cadde nel barile della farina. La moglie del fattore prese ad inseguirlo con la scopa, mentre i bambini urlavano e ridevano. L’anatroccolo volò via dalla porticina del gatto e giacque sulla neve mezzo morto. Poi si trascino fino a un altro stagno, poi a un’altra casa e così passò tutto l’inverno, tra la vita e la morte.

Tornò il soffio gentile di primavera, e le vecchie si misero a scuotere i piumini, e i vecchi riposero i lunghi camicioni. Nuovi bambini arrivarono di notte, mentre i padri misuravano a grandi passi il cortile, sotto il cielo stellato. Di giorno le ragazze si ornavano di asfodeli i capelli e i giovani guardavano le caviglie delle ragazze. E nello stagno l’acqua divenne più tiepida e l’anatroccolo distese le ali.

Com’erano grandi e forti le sue ali. Lo sollevavano in alto. Sullo stagno nuotavano tre cigni, le stesse creature bellissime che aveva visto in autunno. Provò l’impulso di raggiungerli. Discese lentamente nello stagno e intanto il cuore gli batteva forte. Non appena lo scorsero i cigni presero a nuotare verso di lui. Sicuramente la mia fine è vicina, pensò l’anatroccolo. E piegò la testa in attesa dei colpi. Ma ecco che riflesso nello stagno vide un cigno in perfetta tenuta: piumaggio bianco come la neve, occhi color prugna, e tutto il resto. All’inizio non si riconobbe, perché era esattamente come quei bellissimi estranei. Era uno di loro. Per caso il suo uovo era finito in una famiglia di anatre. Lui era un cigno, un glorioso cigno. E per la prima volta i suoi simili gli si avvicinarono e lo sfiorarono con gentilezza e affetto.

il brutto anatroccolo

Quella dell’esiliato è una figura primordiale. L’anatroccolo è il simbolo della natura selvaggia che, compressa in situazioni povere di nutrimento, istintivamente lotta per liberarsi, qualsiasi cosa succeda. Quando la particolare sorta di spiritualità di un individuo è circondata dal riconoscimento psichico e dall’accettazione, la persona sente come mai prima la vita e il potere.

L’esilio del piccolo diverso. L’anatroccolo non è brutto, semplicemente non è come gli altri. Lui ha il cuore spezzato perché i suoi lo rifiutano. Le bambine dalla forte natura istintiva spesso soffrono molto nei primi anni di vita. Sono tenute prigioniere, addomesticate, accusate di essere disadattate. Allora l’io fondamentale della psiche è ferito, la bambina comincia a credere di essere debole, brutta, inaccettabile, e che tutto ciò sarà sempre vero.

I problemi della donna selvaggia esiliata sono duplici: interiori e personali, ed esteriori e culturali.

I vari tipi di madre. Le donne adulte hanno ricevuto in eredità dalla madre vera una madre interiore. Resta un duplicato materno nella psiche che agisce e reagisce come nella prima infanzia:

LA MADRE AMBIVALENTE: nella storia mamma anitra è costretta a distaccarsi dai suoi istinti. Si piega ai desideri della comunità invece di allinearsi con il figlio. Per paura di essere escluse dalla comunità spesso le donne cercano di forgiare la figlia in modo che si comporti “come si deve”. Quando una donna ha questa madre ambivalente nella psiche può trovarsi a cedere tropo facilmente.

LA MADRE ACCASCIATA: alla fine mamma anitra crolla. Ciò significa che ha perduto il senso di sé. Il modo più comune per portare una madre al crollo è costringerla a scegliere tra l’amore per il figlio e la paura che la comunità farà del male a sé e al figlio se non si conformerà alle regole. Quando nella sua psiche e/o cultura la donna ha una madre che crolla, dubita del suo valore.

LA MADRE-BAMBINA O ORFANA DI MADRE: mamma anitra si dimostra molto ingenua e semplice. E’ una madre fragile, psichicamente molto giovane o molto ingenua. La donna che ha nella psiche la struttura della madre bambina soffrirà di ingenui presentimenti, di immaturità, di una capacità istintuale indebolita di immaginare cosa accadrà dopo.

LA MADRE FORTE, LA FIGLIA FORTE: il rimedio consiste nella capacità di fare da madre alla propria giovane madre interiore, rivolgendosi alle donne vere del mondo esterno più vecchie e sagge. Le relazioni tra donne sono importantissime. Invece di svincolarci dalla madre, dobbiamo cercare la madre selvaggia.

La cattiva compagnia. L’istinto ad errare fino a trovare ciò di cui si ha bisogno è intatto. Ma spesso si bussa alle porte sbagliate. Questa è la risposta “ricerca dell’amore nei posti sbagliati” all’esilio. Quando una donna assume un comportamento ripetitivo coatto, insistendo in un comportamento che genera consunzione invece che vitalità, per lenire il suo esilio, in realtà accresce i danni perché la ferita non viene curata e rischia di riaprirsi, sempre più profonda. Per cominciare a guarire dite la verità sulla vostra ferita. Adottate la medicina giusta, la riconoscerete perché rende la vita più forte, e non più debole.

L’inadeguatezza. Una donna può apparire adeguata, ma non essere capace di agire nel modo giusto. All’inizio l’anatroccolo non riesce a fare le cose giuste. Ma è perché è andato nel posto sbagliato per la cosa sbagliata.

Sentimento congelato, creatività congelata. Le donne affrontano l’esilio in altri modi. Per esempio si congelano. La freddezza è il bacio della morte per la creatività, i rapporti, la vita stessa. Non è una conquista, ma un atto di collera difensiva. Il ghiaccio dev’essere rotto e l’anima tolta dal gelo. Fate come l’anatroccolo: andate avanti, datevi da fare. In linea di massima ciò che si muove non si congela. Smettetela di piagnucolare e muovetevi, non smettete di muovervi.

L’estraneo di passaggio. La persona che può estrarci dal ghiaccio, che può liberarci dalla mancanza di sentimenti, non è necessariamente quella cui apparteniamo. E’ quell’attimo in cui lo spirito, in un modo o nell’altro, ci nutre, ci sospinge, ci mostra il passaggio segreto, la via di fuga.

L’esilio come grazia. Se avete tentato di adattarvi a uno stampo e non ci siete riuscite probabilmente avete avuto fortuna. Vi siete protette l’anima. E’ peggio restare nel luogo a cui non si appartiene che vagare sperduti. Non è mai un errore cercare l’affinità di cui si ha bisogno.

I gatti arruffati e le galline strabiche. Essi trovano stupide e insensate le aspirazioni dell’anatroccolo. Si tratta solo di una fondamentale incompatibilità con le persone dissimili, che non è una colpa. Se una donna è un brutto anatroccolo, se è orfana di madre, i suoi istinti non sono affinati. Apprende provando e sbagliando. Ma c’è speranza perché l’esiliata non rinuncia mai. Insiste finchè non trova la guida, il profumo, la traccia, la casa.

Memoria e continuità. Tutte noi abbiamo nostalgia per la nostra natura selvaggia. E’ questa nostalgia che ci induce a resistere, ad andare avanti, sorrette dalla speranza. E’ la promessa che la psiche selvaggia fa a tutte noi. La memoria del mondo selvaggio è un faro che ci guida.

Amore per l’anima. Non cedete. Troverete la vostra strada. Fase del ritorno a se stesse: l’accettazione della propria bellezza unica, cioè dell’anima selvaggia di cui siamo fatte. Accettare la propria individualità e anche la propria bellezza.

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C’è un obbligo morale ad esternare ed esprimere quanto si è appreso nella discesa o nell’ascesa all’Io selvaggio. i 4 rabbiniScarica quì sotto la versione per la stampa dei disegni del libro

La donna scheletro

donna scheletro

La donna scheletro

Aveva fatto qualcosa che suo padre aveva disapprovato, sebbene nessuno più rammentasse cosa. Il padre l’aveva trascinata sulla scogliera e gettata in mare. I pesci ne mangiarono la carne e le strapparono gli occhi. Sul fondo del mare, il suo scheletro era voltato e rivoltato dalle correnti.

Un giorno arrivò in quella baia, dove un tempo andavano in tanti, un pescatore. L’amo del pescatore scese nell’acqua e si impigliò nelle costole della Donna Scheletro. Pensò il pescatore: “Ne ho preso uno proprio grosso!” Intanto pensava a quanta gente quel grosso pesce avrebbe potuto nutrire, a quanto sarebbe durato, per quanto tempo avrebbe potuto restarsene a casa tranquillo. E mentre stava cercando di tirare su quel gran peso attaccato all’amo, il mare prese a ribollire, perché colei che stava sotto stava cercando di liberarsi. Ma più lottava e più restava impigliata. Inesorabilmente veniva trascinata verso la superficie, con le costole agganciate all’amo.Il pescatore si era girato per raccogliere la rete e non vide la testa calva affiorare dalle onde, non vide le piccole creature di corallo che guardavano dalle orbite del teschio, non vide i crostacei sui vecchi denti d’avorio.

Quando si volse, l’intero corpo era salito in superficie e pendeva dalla punta del kayak.

“Ah!”, urlò l’uomo, e il cuore gli cadde fino alle ginocchia, gli occhi per il terrore si nascosero in fondo alla testa, e le orecchie diventarono rosso fuoco. La gettò giù dalla prua con il remo, e prese a remare come un demonio verso la riva. Non rendendosi conto che era aggrovigliata nella lenza, era sempre più terrorizzato perché essa pareva stare in piedi e seguirlo a riva. Per quanto andasse a zig zag restava lì dietro ritta in piedi e il suo respiro rovesciava sulle acque nuvole di vapore, e le braccia si lanciavano in acqua come per afferrarlo.

Alla fine l’uomo raggiunse il suo igloo, si lanciò nella galleria, e a quattro zampe penetrò all’interno. Ansimando e singhiozzando giacque nell’oscurità, con il cuore che batteva come un tamburo. Finalmente al sicuro.

Ma quando accese la lampada all’olio di balena, eccola, lei era lì, ed egli cadde sul pavimento di neve con un tallone sulla sua spalla, un piede sul suo gomito. Non seppe poi dire come fu, forse la luce del fuoco ne ammorbidiva i lineamenti, o forse perché era un uomo solo. Fatto sta che sentì nascere come un sentimento di tenerezza, e lentamente allungò le mani sudicie e prese a liberarla dalla lenza. “Ecco, ecco”, prima liberò le dita dei piedi, poi le caviglie. E continuò nella notte, e la coprì di pellicce per tenerla al caldo. Cercò la pietra focaia e accese il fuoco. Lei non diceva una parola – non osava – perché altrimenti quel cacciatore l’avrebbe presa e gettata agli scogli.

All’uomo venne sonno, scivolò sotto le pelli e cominciò ben presto a sognare. Talvolta, durante il sonno, una lacrima scivola giù dall’occhio di chi sogna, quando c’è un sogno di tristezza o di struggimento. E questo accadde all’uomo. La Dona Scheletro vide la lacrima brillare nella luce del fuoco, e d’improvviso sentì un’immensa sete. Si trascinò accanto all’uomo addormentato e posò la bocca su quella lacrima. Quell’unica lacrima era come un fiume, e lei bevve e bevve finchè la sua sete di anni non fu placata.

Frugò nell’uomo addormentato e gli prese il cuore, il tamburo possente. Si mise a sedere e si mise a picchiare sui due lati del cuore. Mentre suonava si mise a cantare: “Carne, carne, carne!”. E più cantava più si ricopriva di carne. Cantò per i capelli e per buoni occhi e per mani piene. Cantò la linea tra le gambe, e il seno, abbastanza grande da trovarvi calore, e tutte le cose di cui una donna ha bisogno. E poi cantò i vestiti, che si togliessero dal dormiente, e scivolò nel letto con lui, pelle a pelle. Rimise il suo cuore nel suo corpo, e così si risvegliarono stretti uno nelle braccia dell’altra, aggrovigliati dalla loro notte, in un altro mondo, bello e duraturo.

donna scheletro

Se L’incapacità di affrontare e sbrogliare la donna scheletro fa sì che molte relazioni falliscano. Per amare bisogna essere non solo forti, ma anche saggi. La forza viene dallo spirito. La saggezza viene dalla Donna Scheletro. La Donna Scheletro dimostra che vivere insieme accrescimenti e decrescimenti, conclusioni e inizi, crea un amore impareggiabile fatto di devozione.

Il ritrovamento accidentale del tesoro.
In questo racconto il pescatore trova molto più di quello che si sarebbe aspettato. Non si rende conto di sollevare il tesoro più allarmante che gli sarà dato di conoscere, più di quanto egli possa governare. Non sa di dover venire a patti, che tutti i suoi poteri saranno messi alla prova. E’ lo stato di tutti gli innamorati all’inizio: sono ciechi come pipistrelli.
Restare inerti e limitarsi a sognare l’amore perfetto è facile. E’ una sorta di anestesia dalla quale potremo non risvegliarci mai. E’ compito dell’anima riconoscere il tesoro in quanto tale, indipendentemente dalla sua forma insolita, e riflettere sul da farsi. Talvolta anche gli innamorati all’inizio di una relazione cercano soltanto un po’ di eccitazione, un pizzico di sedativo. Senza rendersene conto, entrano in una parte della psiche, propria o dell’altro, dove risiede la Donna Scheletro. Il pescatore pensa di cercare semplicemente di che nutrirsi, mentre in realtà fa risalire la natura femminile essenziale nella sua completezza, la natura Vita/Morte/Vita.
Una parte di ogni uomo e di ogni donna oppone resistenza al sapere che in tutte le relazioni amorose la Morte deve avere la sua parte. Fingiamo di poter amare senza che muoiano le nostre illusioni sull’amore, fingiamo di poter andare avanti senza che muoiano le nostre aspettative superficiali, fingiamo che le nostre ebrezze e i nostri impeti preferiti non moriranno mai. Ma in amore tutto, ma proprio tutto, viene accantonato e la persona dalla natura profonda e selvaggia è irrefutabilmente attirata dal compito. Che cosa muore? Muore l’illusione, muoiono le aspettative, la bramosia di avere tutto, il desiderio di prendere solo il bello, tutto questo muore.
Il pescatore della storia è lento nel rendersi conto della natura di quel che ha preso. E’ difficile rendersi conto di quel che si fa, quando si pesca nell’inconscio. Laggiù vive la natura Morte. Non appena scoprite con chi avete a che fare, il vostro primo impulso è gettarla via. Diventiamo come i padri che gettano le figlie in mare. le relazioni spesso vacillano quando passano dalla fase dell’anticipazione a quella in cui bisogna affrontare quello che in realtà è preso all’amo. Se gli amanti si ostinano in una vita di gaiezza forzata, di perpetue piacevolezze o in altre forme di intensità micidiale, se insistono con il lampo e il fulmine sessuale, o nella corrente del dilettevole senza conflitti, la natura Vita/Morte/Vita torna dalla scogliera da cui viene gettata in mare. Gli amanti che si ostinano a tenere tutto su una cima scintillante vivranno una relazione sempre più ossificata. Il desiderio di vivere l’amore nella sua forma positiva soltanto lo porta a un punto morto.
La sfida per il pescatore è affrontare Signora Morte, il suo abbraccio, i suoi cicli di vita e di morte. Senza di lei non può darsi una vera conoscenza della vita, e senza questa conoscenza non può darsi né amore vero né devozione. L’amore costa coraggio e resistenza a percorrere un lungo cammino.
Due persone iniziano la danza per vedere se va bene loro amarsi. La Donna Scheletro viene accidentalmente presa all’amo. Si iniziano a vedere le parti fragili e lese dell’altro, o la sua inadeguatezza come trofeo. Quando emerge la donna scheletro si offre una vera opportunità di mostrare coraggio e conoscere l’amore. Amare significa stare con. Significa emergere da un mondo di fantasia in un mondo in cui è possibile un amore faccia a faccia. Amore significa restare quando ogni cellula dice: “Scappa”.
Al primo confronto con la Donna Scheletro quasi tutti provano l’impulso di volare via come il vento. Anche la corsa rientra nel processo, ma la corsa non può durare a lungo, o per sempre.

La Caccia e il Nascondimento.
La natura Morte ha la strana abitudine di emergere nelle storie d’amore proprio quando pensiamo di aver vinto un amante, un “pesce grosso”. Ecco il perché di tanto correre e nascondersi. Ma non c’è nessun posto dove nascondersi. All’inizio, quando impariamo ad amare davvero, fraintendiamo molto. Pensiamo di essere inseguiti mentre in realtà è la nostra intenzione di metterci in relazione con un altro essere umano in modo speciale che aggancia la donna scheletro. Ovunque stia nascendo l’amore, sempre affiora la forza Vita / Morte / Vita. Sempre.
Paradossalmente, quando uno dei due innamorati tenta la fuga, la relazione è investita da più vita. E più si crea vita, più il pescatore è spaventato. E più corre, più si crea vita. La fase della corsa e del nascondimento è quella in cui gli amanti tentano di razionalizzare la loro paura dei cicli Vita/Morte/Vita. Dicono: “Può andare meglio con un altro”, oppure “Non voglio rinunciare a..”, o “non voglio cambiare la mia vita”, “affrontare le mie e le altrui ferite”, “non sono ancora pronta”; “non voglio essere trasformato”. Si cerca disperatamente un riparo e il cuore batte, non perché si ama e si è amati, ma per vigliacca paura. Essere intrappolati da signora Morte!
Abbiamo trovato un tesoro, e cerchiamo di fuggire. Ma alla fine tutti dobbiamo baciare la strega.
Lo stesso processo segue l’amore. Vogliamo soltanto la bellezza e non vogliamo affrontare il “brutto”. La donna scheletro ci insegue. E’ la grande maestra che avevamo detto di volere. “No, non questa maestra!”. Peccato: è la maestra che tocca a tutti.
Molti temono che quando le cose diventano spaventose e si ingarbugliano in una storia d’amore la fine è vicina, mentre non è così. L’idea di “prendersi dello spazio” è come l’igloo del pescatore, dove pensa di essere al sicuro. Cercare di prendere solo i lati piacevoli di una relazione d’amore non funziona mai. Gli amanti si sono preparati, si sono rafforzati, stanno cercando di mantenere in equilibrio le loro paure. E ora, proprio quando stanno per battere sul cuore come su un tamburo e cantare, uno grida: “non ancora”, oppure “No, mai e poi mai”.
Tutti quelli che non sono pronti, hanno bisogno di tempo, sono comprensibili, ma solo per un breve periodo. La verità è che mai nessuno è completamente pronto. Come sempre nella discesa nell’inconscio, viene un momento in cui semplicemente ci si tappa il naso e ci si butta nell’abisso. Per amare il piacere non ci vuole molto, per amare davvero ci vuole un eroe capace di governare la propria paura.

Sbrogliamento dello scheletro.
Se stiamo facendo l’amore, anche se siamo apprensivi o spaventati desideriamo liberare le ossa della natura Morte. Vogliamo toccare il non-bello dell’altro, e in noi medesimi. Che cos’è il non-bello? La nostra segreta fame di essere amati è il non-bello. La nostra negligenza quanto a lealtà e la nostra devozione sono poco attraenti, il nostro senso di separazione dall’anima è scialbo, i nostri bitorzoli psicologici, le inadeguatezze, gli equivoci e le fantasie infantili sono il non-bello. Sbrogliare la donna scheletro significa comprendere che l’amore non è tutto un luccichio di candeline. Significa trovare coraggio e non paura nell’oscurità della rigenerazione. Significa balsamo per le ferite. Cambiare i nostri modi di essere per riflettere la salute e non la povertà dell’anima.
La paura è una scusa modesta per non fare questo lavoro tutti abbiamo paura. Se sei vivo, hai paura. Tre cose differenziano il vivere con l’anima di contro al vivere solamente con l’io: la capacità di sentire e apprendere modi nuovi, la tenacia per percorrere una strada impervia, la pazienza di apprendere nel tempo l’amore profondo. Non è con l’io mutevole che amiamo l’altro, ma con l’anima selvaggia. Una selvaggia pazienza è necessaria per sbrogliare le ossa, per imparare il significato di signora Morte. Ci vuole un cuore desideroso di morire e rinascere, morire e rinascere.
La persona che ha sbrogliato la donna scheletro conosce la pazienza, sa meglio come aspettare. Non è traumatizzata né spaventata dalla magrezza, e neanche sopraffatta dal godimento. I suoi bisogni di “avere tutto subito” si trasformano nella capacità di trovare tutte le sfaccettature della relazione. Non teme di correlarsi con la bellezza della furia, la bellezza dell’ignoto, la bellezza del non-bello. Nell’apprendere e nell’elaborare tutto ciò diventa l’amante selvaggio per eccellenza.

Il sonno della fiducia.
In questa fase l’amante torna a uno stato di innocenza, in cui è ancora intimorito dagli elementi emotivi, uno stato di desideri, speranze e sogni. Il pescatore ha affrontato la donna scheletro, l’ha toccata. Questo lo porta a una trasformazione, all’amore. Qui il sonno simboleggia la creazione e il rinnovamento, la rinascita. L’innocenza è uno stato che si rinnova con il sonno, bello sarebbe portare con noi un’innocenza vigile e tenerla stretta per averne calore.
Il pescatore mostra tanta fiducia nella natura Vita/Morte/Vita da riposare e vivificarsi in sua presenza. Quando gli amanti giungono a questo stato, si arrendono alle forze che stanno dietro di loro, alle forze che hanno fiducia, fede e il profondo potere dell’innocenza. Dormono il sonno del saggio invece che del diffidente. C’è una cautela realistica e una ingiustificata, che deriva dall’essere stati feriti in passato. Coloro che temono di “essere presi in giro” o “intrappolati”, che proclamano a gran voce di voler “essere liberi”, sono quelli che si lasciano sfuggire l’oro dalle dita. Talvolta non ci sono parole per dare coraggio, talvolta bisogna semplicemente buttarsi. Dev’esserci un certo punto nella vita di un uomo in cui fiducioso va dove l’amore lo conduce. Quando una vita è troppo controllata, sempre più diminuisce la vita da controllare.
Nella psiche maschile c’è una creatura, un uomo non ferito, che crede nel bene, è saggio e non ha paura di morire. La fiducia non dipende dal fatto che sa che l’amante non lo ferirà. La sua è la fiducia che qualunque ferita riceva, essa potrà essere curata, che una vita nuova segue la vecchia. La fiducia consiste nel sapere che dopo una fine ci sarà un nuovo inizio. Talvolta più un uomo diventa libero e vicino alla donna scheletro, più la sua amante si spaventa e deve fare un suo lavoro sullo slegare e l’osservare. Perché l’amore fiorisca bisogna aver fiducia nel fatto che qualunque cosa accada, comunque apporterà una trasformazione.

Il dono della lacrima.
Le lacrime hanno un potere creativo. La lacrima che viene pianta è la lacrima della passione e della compassione mescolate insieme, per sé e per l’altro.
La lacrima di chi sogna scende quando un aspirante amante consente a se stesso di sentire e fasciare le sue ferite, piange perché sente la sua solitudine, l’acuta nostalgia per un luogo psichico, per una conoscenza selvaggia. Amare l’altro non basta, non basta “non essere d’impedimento”, o essere “di sostegno” o “presente”. La donna scheletro attende quella lacrima che dice: “ammetto la ferita”. Questo è l’inizio della conoscenza profonda dell’uomo. E’ un errore pensare che qualcuno possa essere il nostro curatore, il nostro eccitante, il nostro riempitivo: dobbiamo curare la ferita dentro di noi. Quando l’uomo versa la lacrima si impadronisce del suo dolore, e lo conosce quando lo tocca. Vede come la sua vita è stata vissuta in modo protetto a causa della ferita, e che cosa della vita ha perduto. Vede come ha azzoppato il suo amore per la vita, per se stesso, per l’altro. La lacrima del pescatore avvicina la donna scheletro. Il pescatore lascia che il suo cuore si spezzi: non che vada in frantumi, ma che si apra. E’ un amore che lo avvolge, ora nascerà in lui un cuore grande ed oceanico.

Un cuore per tamburo e un canto.
Il tamburo fatto con il cuore richiama gli spiriti interessati al cuore umano. Il centro psicologico e fisiologico è il cuore. E’ il cuore che ci fa amare come ama un bambino: appieno, senza riserve, senza sarcasmo, né dispregio o protezionismo
. Consentite alla donna scheletro di diventare più palpabile nella vostra vita e lei a sua volta la renderà più ampia. Quando un uomo dona tutto il suo cuore diventa una forza sorprendente: diventa un’ispiratrice. Quando la donna scheletro dorme con lui, egli diventa fertile, è investito di poteri femminili in un ambito maschile. Porta i semi di una nuova vita e delle morti necessarie.
La canzone, come il tamburo, crea una consapevolezza non ordinaria, uno stato di trance, di preghiera.

La danza del corpo e dell’anima.
Il simbolo della donna scheletro è un residuo del tempo in cui molto si sapeva della morte come portatrice di trasformazione spirituale. Nell’immaginario femminile la Donna Morte era intesa come la portatrice del destino, la fattrice, la fanciulla del raccolto, la madre, la ricreatrice, secondo i cicli.
L’amore nella sua forma più piena è un susseguirsi di morte e rinascita: il dolore viene cacciato e rispunta da un’altra parte, muore la passione e rinasce. Amare significa abbracciare e sopportare molte fini e molti inizi, il tutto nella stessa relazione.
Energia, sentimento, solitudine, desiderio, noia, tutto sorge e tramonta in cicli relativamente ravvicinati. Il desiderio della vicinanza e delle separazioni cresce e cala. La natura Vita/Morte/Vita ci insegna che la soluzione del malessere è sempre il contrario. Un’azione nuova è la cura per la noia, la vicinanza è la cura per la solitudine, la solitudine è la cura per la sensazione di essere bloccati.
Nella storia il pescatore era prima inconsapevole, poi è spaventato e in fuga. Infine riflette e comincia a sciogliere i suoi sentimenti e a trovare un modo per correlarsi alla donna scheletro. Poi la sua lacrima di sentimento la nutre e il suo cuore la crea. Così è riamato e impara ad amare.
La donna scheletro viene prima gettata ed esiliata, poi acchiappata da un individuo che la teme. Comincia a tornare alla vita, si trasforma in essere vivente. E’ amata e riama. Lei, la grande ruota della natura, e lui, l’essere umano, ora vivono in armonia insieme.
Vediamo nel racconto che il dono del corpo è uno degli ultimi delle fasi dell’amore, così come dev’essere. Non accettate l’amante che subito vuole il corpo, insistete perché tutte le fasi si sviluppino. Fare l’amore è rimescolare spirito e carne, spirito e materia. Per amare dobbiamo fare l’amore con la strega.
Come in questa storia dovrebbe svilupparsi la relazione amorosa: ogni partner dovrebbe trasformare l’altro. La forza e il potere di ognuno vengono liberati e spartiti. Chissà cosa cacceranno insieme.

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Manawee

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MANAWEE (storia afro-americana)

C’era una volta un uomo che corteggiava due sorelle gemelle. Ma il loro padre gli disse: “Non potrai averle in moglie finchè non ne indovinerai i nomi”. Manawee provava ma non riusciva ad indovinare i nomi delle due sorelle. Il padre delle giovani scuoteva il capo e ogni volta lo mandava via.

Un giorno Manawee portò con sé il suo cagnolino, il quale si avvide che una sorella era più graziosa e l’altra più dolce. Sebbene nessuna delle due possedesse tutte le virtù, al cagnolino piacevano moltissimo perché gli diedero delle leccornie e gli sorrisero guardandolo negli occhi.

Anche quel giorno Manawee non riuscì a indovinare i nomi delle giovani, e se ne tornò tristemente a casa. Ma il cagnolino tornò correndo alla capanna delle giovani. Poggiò l’orecchio contro un muro e udì le ragazze che dicevano tra di loro quanto era bello e virile Manawee. Intanto si chiamavano per nome, e il cagnolino udì e corse più velocemente possibile per riferire tutto al suo padrone.

Ma accanto al sentiero un leone aveva lasciato un grosso osso con un bel po’ di carne;

il cagnolino ne sentì immediatamente l’odore, e senza pensarci un attimo si gettò nella giusta direzione. Con enorme piacere divorò la carne e leccò l’osso finchè non ebbe alcun odore. Oh! Il cagnolino d’improvviso si ricordò della missione incompiuta, ma purtroppo nel frattempo aveva dimenticato i nomi delle giovani.

Di nuovo corse alla capanna, e questa volta era notte e le giovani si ungevano l’un l’altra braccia e gambe, preparandosi forse a una cerimonia. Di nuovo il cagnolino le udì chiamarsi per nome. Fece un salto per la felicità e riprese la corsa verso la capanna di Manawee, ma dai cespugli venne un odore di noce moscata. Non c’era nulla al mondo che il cagnolino amasse più della noce moscata. Subito deviò in quella direzione e trovò una bella torta ai mandarini cinesi messa a raffreddare su un ceppo. Mentre trotterellava verso casa con la pancia piena, cercò di rammentarsi i nomi delle giovani, ma ancora una volta li aveva dimenticati.

Così il cagnolino tornò di corsa alla capanna, e questa volta le due sorelle si stavano preparando per le nozze. E quando le sorelle si chiamarono per nome, il cagnolino si ficcò i loro nomi in testa e corse via a tutta velocità dal suo padrone. Ma il cagnolino fu colto di sorpresa da un estraneo tutto nero che sbucò dalle siepi e lo afferrò per la collottola e lo scosse così brutalmente che quasi gli cascava la coda. E lo straniero continuava a urlare: “Dimmi quei nomi! I nomi delle due giovani, così le vincerò”. Il cagnolino temeva di svenire, ma lottò coraggiosamente, alla fine morse il gigantesco straniero tra le dita, e i suoi dentini pungevano come vespe. Lo straniero si buttò tra i cespugli con il cagnolino che gli spenzolava dalla mano. Così lo straniero si diede alla fuga gemendo e lamentandosi. E il cagnolino, un po’ correndo e un po’ zoppicando, riprese la strada per raggiungere Manawee.

Sebbene sanguinasse e gli dolessero le mandibole i nomi delle giovani erano ben chiari nella sua mente. Manawee gli lavò le ferite e il cagnolino gli raccontò tutta la storia e gli disse i nomi delle due sorelle. Manawee corse dunque al villaggio delle giovani portandosi sulle spalle il cagnolino.

Quando Manawee arrivò dal padre con i nomi, le gemelle lo ricevettero vestite di tutto punto: non avevano mai smesso di aspettarlo.

manaweeSe le donne vogliono davvero farsi conoscere dagli uomini, devono indottrinarli nella conoscenza profonda. Alcune dicono di essere stanche, ma forse hanno cercato di insegnare a un uomo a cui non interessa affatto imparare.

La duplice natura delle donne. Per conquistare il cuore di una donna selvaggia un compagno deve comprenderne la naturale dualità. Qui si parla di due potenti forze femminili in una stessa donna. Per risolvere il mistero Manawee deve ricorrere al suo io istintuale – l’io-cane.
Un essere esterno e una creatura interiore. L’essere esterno vive alla luce del giorno ed è facile osservarlo, è spesso pragmatico, acculturato e molto umano. La creatura spesso sale in superficie arrivando da molto lontano, lasciando sempre dietro una sensazione. Quando un lato è più freddo, l’altro è più caldo; uno può essere solare, l’altro agrodolce e meditabondo.

Il potere dei due. Se una donna favorisce o nasconde troppo un lato, vive una vita mal equilibrata, che non le consente l’accesso al suo pieno potere. Occorre sviluppare entrambi i lati.
I due lati della natura duale, se tenuti insieme nella consapevolezza, hanno un potere tremendo e non possono essere spezzati.
Anche Manawee ha una duplice natura: la sua natura umana, sebbene dolce e affettuosa non basta per vincere. E’ la sua natura canina, istintuale, che ha la capacità di insinuarsi nelle vicinanze delle donne selvagge.

Il potere del nome. Manawee vuole sapere il nome delle sorelle non per impadronirsi del loro potere, ma per conquistare un suo potere pari a loro. Se siamo interessati a scoprire i nomi siamo sulla strada giusta. Le donne spesso desiderano follemente un compagno che continui a cercare di comprendere la loro natura profonda. La donna che trova un compagno così gli resta fedele e lo ama per tutta la vita.
Dice il padre: non puoi comprendere i misteri femminili solo ponendo domande. Devi darti da fare, faticare.

La tenace natura canina. I cani sono generatori di rapporto, è l’altro lato della natura dualistica maschile. E’ la natura capace di conoscere la natura selvaggia delle donne.

L’appetito seduttivo. Spesso ci si lascia distrarre da piaceri di vario genere e vi si resta intrappolati. Anche il cagnolino è distratto dai suoi appetiti. Le distrazioni dell’appetito interferiscono con il processo primario. E’ necessario trattenere la conoscenza nella consapevolezza senza farci distrarre, ricordare il vero compito. Nella psiche di ognuno ci sono elementi tortuosi, ingannevoli, deliziosi. Sono elementi anticonsapevolezza: prosperano mantenendo le cose oscure ed eccitanti.

La conquista della fierezza. La psiche sceglie la priorità e riesce a concentrarsi, ora è decisa. Ma ecco che una cosa nera d’improvviso assale il cagnolino, per lui il femminino è una proprietà da vincere e nulla più. Lo straniero può essere una creatura reale del mondo esterno o un complesso negativo interiore. Gli effetti devastanti sono gli stessi. Il cagnolino lotta per conservare i nomi. Mettere il potere nelle mani giuste è importante quanto trovare i nomi.

La donna interiore. Se una donna vuole un compagno sensibile deve rivelargli il segreto della dualità femminile. Deve parlargli della donna interiore, che insieme a sé fa due. Lo farà insegnando due domande che la faranno sentire guardata, ascoltata, conosciuta: “Che cosa vuoi?”, “Che cosa desidera il tuo io più profondo?”. Per amare una donna, il compagno deve amarne anche la natura selvaggia.. l’amante più prezioso è colui che desidera imparare. Se c’è una forza che alimenta la radice del dolore, quella è il rifiuto di apprendere ancora. Il buon compagno è colui che continua a tornare per capire e non si lascia scoraggiare.
Se un lato della natura duale femminile si può chiamare Vita, la sorella gemella della vita è una forza detta Morte. La donna selvaggia, l’amante selvaggio, sanno sopportarne la vista. E ne escono completamente trasformati.

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Vassilissa

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VASSILLISSA (Russia, Romania, Yugoslavia, Polonia, Paesi baltici)

C’era una volta, e una volta non c’era, una giovane madre che giaceva sul letto di morte, il volto bianco come le rose di cera della sagrestia della chiesa accanto. La figlioletta e il marito sedevano in fondo al letto di legno e pregavano Dio. La madre chiamo a sé Vassillissa e la piccola dagli stivaletti rossi e dal grembiulino bianco s’inginocchiò accanto alla mamma.

“Ecco, questa bambola è per te, tesoro mio” sussurrò la mamma. E da sotto le coperte tirò fuori una bambolina che come Vassillissa indossava stivaletti rossi, grembiulino bianco, gonna nera e corsetto ricamato. “Se ti perderai o avrai bisogno di aiuto, domanda a questa bambola che fare. Tienila sempre con te, non parlarne a nessuno e nutrila quando ha fame”. E il respiro le ricadde nelle profondità del corpo, dove raccolse l’anima e sfuggì dalle labbra.

La bambina e suo padre a lungo piansero e si disperarono. Ma poi, come il campo crudelmente sconvolto dalla guerra, la vita del padre rinverdì e sposò una vedova che aveva due figlie.

Sebbene esse avessero modi educati e sorridessero sempre come vere signore, dietro ai loro sorrisi c’era qualcosa del roditore che il padre di Vassillissa non notava. Quando le tre donne erano sole con Vassillissa la tormentavano, la costringevano a servirle, la mandavano a tagliare la legna. La odiavano perché c’era in lei una bellezza ultraterrena.

Un giorno la matrigna e le sorellastre non la sopportarono più. “Facciamo in modo che il fuoco si estingua, e poi mandiamola nella foresta dalla Baba Yaga a chiedere il fuoco. Così la Baba Yaga la ucciderà e se la mangerà”. Squittirono come esseri che vivono nell’oscurità. Così quella sera, quando Vassillissa tornò da aver raccolto la legna, la casa era tutta al buio. Domandò alla matrigna: “Come faremo a cucinare? Come faremo a rischiarare le tenebre?”

“Stupida ragazza, ovviamente non abbiamo fuoco. Devi andare a cercare la Baba Yaga a chiederle un carbone per riaccendere il fuoco”. “Benissimo lo farò” rispose Vassillissa, e si avviò. Nel bosco l’oscurità si faceva sempre più fitta, e i ramoscelli che le scricchiolavano sotto i piedi la riempivano di paura. Infilò la mano nella tasca del grembiule, dove nascondeva la bambola che la mamma le aveva dato, e subito si sentì meglio. E a ogni biforcazione Vassillissa infilava la mano nella tasca e consultava la bambola, e la bambola le indicava da che parte andare.

Improvvisamente un uomo vestito di bianco su un cavallo bianco passò al galoppo, e si fece più chiaro. Poi passò un uomo vestito di rosso su un cavallo rosso, e sorse il sole. Cammina, cammina Vassillissa arrivò alla tana della Baba Jaga, e proprio in quel momento un cavaliere vestito di nero su un cavallo nero penetrò nella baracca. Subito si fece notte.

La Baba Jaga era veramente una creatura spaventosa. Viaggiava su un mortaio che si spostava da solo. Guidava questo veicolo con un remo a forma di pestello, e intanto cancellava le tracce alle sue spalle con una scopa fatta con i capelli di persone morte da gran tempo. E il mortaio volava nel cielo con i capelli grassi della Baba Jaga che svolazzavano dietro. Il lungo mento era ricurvo verso l’alto e il lungo naso verso il basso, così si incontravano al centro. Aveva una barbetta a punta tutta bianca e verruche sulla pelle. Le unghie nere erano spese e ricurve e tanto lunghe che non poteva chiudere la mano a pugno..

Ancora più strana era la casa della Baba Jaga. Posava su un mucchio di zampe gialle di gallina, camminava da sola e qualche volta volteggiava come una ballerina in estasi. Le maniglie delle porte e delle finestre erano fatte con dita umane di mani e di piedi e il chiavistello era un grugno di denti appuntiti.

Vassillissa consultò la bambola e lei le rispose che quella era la casa che cercava. E d’improvviso la Baba Jaga nel suo mortaio calò su Vassillissa urlandole: “Cosa vuoi?”. La fanciulla tremava: “Nonna, sono venuta per il fuoco…ho bisogno di fuoco”. ” Oh, sìììì ti conosco, e conosco i tuoi. Dunque, essere inutile…hai lasciato spengere il fuoco. E che cosa ti fa pensare che io ti darò la fiamma?” Vassillissa consultò la bambola e rispose. “Perché chiedo”. La Baba Jaga disse soddisfatta. “Sei fortunata. E’ la risposta giusta”. E Vassillissa si sentì fortunatissima per aver dato la risposta giusta.

Baba Jaga la minacciò: “Non potrò darti il fuoco finchè non avrai fatto del lavoro per me. Se adempirai questi compiti per me, avrai il fuoco. Se no…”. E Vassillissa vide gli occhi della Baba Jaga trasformarsi in braci ardenti. “Se no, cara bambina, morirai”.

La Baba Jaga ordinò a Vassillissa di portarle quello che stava cuocendo nel forno. Nel forno c’era cibo per dieci persone e la Baba Jaga lo mangiò tutto, lasciando una piccola crosta e un cucchiaio di minestra per Vassillissa. “Lavami i vestiti, scopa il cortile e la casa, e separa il grano buono da quello cattivo e vedi che tutto sia in ordine. Se quando torno non avrai finito sarai tu il mio banchetto”. E la Baba Jaga volò via sul suo mortaio. E cadde di nuovo la notte.

Quando la Baba Jaga se ne fu andata la bambola rassicurò Vassillissa che ce l’avrebbe fatta, le disse di mangiare qualcosa e di andare a dormire. Vassillissa rifocillò anche la bambola e si addormentò.

Al mattino la bambola aveva fatto tutto, e non restava che preparare il pasto. La sera la Baba Jaga tornò e trovò che non era rimasto nulla da fare. In parte contenta, e in parte no, sibilò: “Sei una ragazza molto fortunata”. Chiamò poi i suoi fedeli servitori perché macinassero il frumento, e tre paia di mani comparvero a mezz’aria e cominciarono a raschiare e a pestare il frumento. La pula volava per la casa come una neve dorata. Quando fu tutto finito la Baba Jaga si sedette a mangiare. Mangiò per ore e ordinò a Vassillissa di pulire di nuovo tutta la casa, di scopare il cortile e lavarle i vestiti. “In quel mucchio di sporcizia ci sono molti semi di papavero. Per domattina voglio una pila di semi di papavero e una pila di sporcizia, ben separati”.

Quella notte la Baba Jaga dormì come un ghiro. Vassillissa cercò…di raccogliere…i semi di papavero…tra la sporcizia. Dopo un po’ la bambola le disse: “Ora dormi. Andrà tutto bene”. di nuovo la bambola si occupò di tutto e quando la vecchia tornò a casa era stato tutto fatto. La Baba Jaga chiamò i suoi fedeli servitori perché spremessero l’olio dai semi di papavero.

Mentre la Baba Jaga si insudiciava le labbra con il grasso dello stufato, Vassillissa le stava accanto. “Posso farti qualche domanda, nonna?”. “Domanda pure, ma ricordati che troppo saprai, presto invecchierai”. Vassillissa chiese dell’uomo bianco sul cavallo bianco. “Quello è il mio giorno”, rispose la baba Jaga intenerita. “E l’uomo in rosso sul cavallo rosso?”. “Oh, quello è il mio sole nascente”. “E l’uomo sul cavallo nero?”. “Quello è il terzo, ed è la mia notte. Vieni qui, vuoi farmi altre domande?”, le disse con tono suadente. Vassillissa stava per chiederle di quelle strane mani, ma la bambola cominciò ad agitarsi nella tasca e allora disse: “No nonna. Come tu stessa hai detto, troppo saprai, presto invecchierai”.

“Ah” disse la Baba Jaga “sei più saggia dei tuoi anni. E come hai fatto a diventare così?”. “Grazie alla benedizione della mia mamma” disse sorridendo Vassillissa. “Benedizione?! Non abbiamo bisogno di benedizioni qui! Meglio che tu te ne vada” e la spinse fuori. Ma prima le dette un teschio dagli occhi ardenti e lo infilò su un bastone. “Ecco, prendi il tuo fuoco e portatelo a casa”.

Vassillissa corse a casa, seguendo il percorso che la bambola le indicava. Era notte, e Vassillissa attraversò la foresta con il teschio sul bastone, con il fuoco che usciva dall’orecchio, dall’occhio, dal naso e dalla bocca del teschio. D’improvviso provò paura di quella luce fantastica e pensò di gettarlo, ma il teschio le parlò e la invitò a calmarsi e proseguire.

La matrigna e le sorellastre si avvicinarono alla finestra e videro una strana luce danzante nei boschi. Sempre più si avvicinava. Vassillissa si avvicinava sempre di più e quando la matrigna e le sorellastre la riconobbero le corsero incontro e le dissero che non avevano avuto più fuoco da quando se n’era andata.

Vassillissa entrò in casa con un senso di trionfo. Ma il teschio sul bastone osservava ogni mossa delle sorellastre e della matrigna, e la mattina dopo aveva bruciato e ridotto in cenere il malvagio terzetto.

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Vassillissa è la storia del passaggio di madre in figlia, da una generazione all’altra, del potere femminile dell’intuito. Tutti gli aspetti della storia appartengono ad un’unica psiche nel suo processo di iniziazione. L’iniziazione è messa in atto dall’esecuzione di alcuni compiti:

1- consentire all’ottima madre di morire. Accettare che la madre psichica protettiva non sia la guida centrale della propria vita istintuale futura. Assumersi il compito di essere sole, sviluppare la propria consapevolezza del pericolo, dell’intrigo, della politica. Diventare vigili. Lasciar morire quello che deve morire. Al morire della madre, nasce la nuova donna.

Una madre troppo buona ci impedisce di rispondere a nuove sfide e di raggiungere uno sviluppo più profondo. Può avvenire un arresto nel processo iniziatico, ma una ri-iniziazione può ristabilire l’intuito profondo indipendentemente dall’età. L’iniziazione di Vassillissa consiste nel lasciare morire quelle vecchie credenze che rendono la vita troppo sicura, che proteggono troppo. Viene un tempo in cui bisogna cambiare madri. Spesso udiamo voci dentro di noi che ci incoraggiano a restare al sicuro. Ma se restiamo troppo tempo con la madre troppo buona, diventeremo povere invece che forti. Impariamo ad andare a caccia.

2- abbandonare l’ombra primitiva. Scoprire che essere dolci, buone, carine, non renderà più lieta la vita. Esperire direttamente la propria natura oscura, gli aspetti esclusivisti, gelosi e sfruttatori dell’io. Stringere il miglior rapporto possibile con le parti peggiori di sé. Lavorare perché il vecchio io muoia e nasca un nuovo io intuitivo.

Gli aspetti oscuri della psiche sono rappresentati dalla matrigna e dalle sorellastre. In questa fase la donna è molestata dalle richieste della psiche che la esorta a compiacere qualsiasi desiderio altrui. La famigli acquisita di Vassillissa è un ganglio intrapsichico che comprime il nervo della vitalità. Neanche il padre della psiche si rende conto dell’ambiente ostile, è troppo buono. Nella storia le donne spremono tanto la forza psichica che per le loro macchinazioni il fuoco si estingue. Il fuoco che si estingue aiuta Vassillissa a sfuggire alla sottomissione, la fa entrare in una vita nuova.

3- la navigazione nell’oscurità. Avventurarsi nel luogo dell’iniziazione profonda (la foresta) e cominciare ad esperire. Imparare a sviluppare sensibilità e basarsi solo sui propri sensi interiori. Imparare la via del ritorno alla madre selvaggia. Imparare ad alimentare l’intuito. Trasferire il potere alla bambola, ovvero all’intuizione.

La bambola rappresenta la piccola forza istintuale vitale, è un pezzettino d’anima che porta tutta la conoscenza del più grande anima-io, è la voce interiore di noi donne, la voce della ragione intima. L’intuito ha artigli che squartano e inchiodano, ha occhi capaci di vedere oltre le corazze dei personaggi e orecchie per udire oltre le chiacchiere. L’io intuitivo va nutrito dandogli ascolto e seguendo il suo consiglio.

4- affrontare la strega selvaggia. Familiarizzarsi con l’arcano, lo strano l’alterità del selvaggio. Assumere alcuni suoi valori nella nostra vita, diventando un po’ strane. Imparare ad affrontare il grande potere altrui e il nostro. Lasciar ancor più morire la bambina fragile e troppo amabile.

La casa della Baba Jaga fa parte del mondo animale e Vassillissa ha bisogno di questo elemento nella sua personalità. E’ una casa che cammina, piroetta è viva, piena di entusiasmo e di gioia.

Il dono della bambola intuitiva fatto dalla madre amabile è incompleto senza l’assegnazione dei compiti e il controllo dei medesimi da parte della vecchia selvaggia. La Baba jaga incute paura perché è insieme il potere di annientamento e il potere della forza vitale. Osservare la sua faccia significa vedere la vagina dentata, occhi di sangue, il neonato perfetto e le ali degli angeli, tutto insieme.

5- servire il non-razionale. Restare con la Dea Strega. Arrivare a riconoscere il suo (il vostro) potere. Ordinare, nutrire, creare energia e idee.

La Baba Jaga insegna sia la morte sia il rinnovamento. Insegna a Vassillissa come prendersi cura della casa psichica del femminino selvaggio. Nel racconto il bucato è il primo compito. Significa ridare elasticità a quanto si è allentato. Il rinnovamento, la rivivificazione avvengono nell’acqua. Gli indumenti rappresentano la persona, la prima visione che gli altri hanno di noi. Oppure il significato esterno, l’esibizione della padronanza.

Vassillissa ha poi il compito di scopare la capanna e il cortile. Una donna saggia tiene sgombro il suo ambiente psichico, mantenendo sgombri la testa e un posto per lavorare, e lavorando per portare a compimento le sue idee e i suoi progetti.

Cucinare per la Baba Jaga. Per cominciare bisogna accendere il fuoco, bruciare di passione, di parole, di idee, di desiderio, per qualunque cosa si ami veramente. Il fuoco va osservato, attizzato, vi va aggiunta legna. Questi sono i cicli delle donne: depurare il proprio pensiero, rinnovare i valori regolarmente; liberare la psiche dalle banalità, ramazzare l’Io; curare il fuoco creativo e cucinarvi idee sistematicamente.

6- selezionare e separare. Apprendere a discriminare, separando una cosa dall’altra, facendo sottili distinzioni. Osservare il potere dell’inconscio e il modo in cui opera. Apprendere di più sulla vita e sulla morte.

La selezione di cui parla il racconto è del tipo che capita quando ci troviamo davanti ad un dilemma o ad un interrogativo ma niente viene ad aiutarci a risolvere la situazione. Lasciamo perdere, torniamoci sopra in un secondo tempo. Dobbiamo selezionare gli aspetti psichici curativi e spremerne la verità per trarne nutrimento.

7- domande sui misteri. Porre domande e cercare di saperne di più sulla natura Vita/Morte/Vita. Imparare la verità sulla capacità di comprendere tutti gli elementi della natura selvaggia (troppo saprai, presto invecchierai).

I cavalieri nero, rosso e bianco sono simboli degli antichi colori che connotano la nascita, la vita e la morte. Rappresentano anche antiche idee sulla discesa, la morte e la rinascita. Il nero è il colore del fango, del fertile; ma è anche il colore della morte, l’oscuramento della luce, è la promessa che presto conoscerete qualcosa di ignoto. Il rosso è il colore del sacrificio, della collera, del delitto; ed è anche il colore della vita vibrante, dell’eccitazione, dell’eros e del desiderio; è la promessa di una nuova nascita. Il bianco è il colore del nuovo, del puro, dell’intatto, del latte materno; ma è anche il colore dei morti; è la promessa di sufficiente nutrimento perché le cose ricomincino.

E’ importante lasciar vivere e lasciar morire. Afferrare questo ritmo quieta la paura, perché anticipiamo il futuro. C’è una certa quantità di conoscenza che dovremmo avere a ogni età e in ogni fase della nostra esistenza. Vassillissa fa domande sui cavalieri ma non sulle mani. Non bisogna forzare: la comprensione arriverà.

8- stare a quattro zampe. Assumere un immenso potere di vedere e influenzare gli altri. Guardare le situazioni della propria vita sotto questa nuova luce.

Quando le donne integrano il selvaggio della Baba Jaga la smettono di accettare senza discutere chiunque e qualsiasi cosa capiti per la loro strada. La donna impara a guardare furtivamente, scrutare e poi a sopportare sempre meno i buffoni. L’istinto va consultato ad ogni passo lungo la via.

Il teschio era considerato la volta che ospita un resto potente dell’anima del defunto. Il teschio accesso è “un sapiente ancestrale” da portare con sé per la vita. Ora Vassillissa torna a casa più sicura. La donna che è arrivata a questo punto è riuscita a staccarsi dalla protezione della sua madre interiore troppo buona, ad aspettarsi dal mondo esterno le avversità che saprà affrontare in modo potente e non complice. E’ diventata consapevole della matrigna e delle sorelle inibitorie. Avendo ricevuto l’eredità delle madri è perfettamente abilitata, va avanti nella vita con passi sicuri, da donna, assumendo tutto il suo potere.

9- riplasmare l’Ombra. Far uso della vista acuta per riconoscere e reagire all’ombra negativa della propria psiche o di persone od eventi del mondo esterno. Riplasmare le ombre negative della propria psiche con il fuoco-strega.

Nella foresta, con il teschio, Vassillissa è una donna che cammina preceduta dal suo potere. Il teschio è un’ulteriore rappresentazione dell’intuito e ha una sua capacità di discriminazione. Ora Vassillissa porta la fiaccola della conoscenza, possiede il suo Io, può vedere, odorare, gustare, con i suoi sensi ardenti.

La donna che recupera il suo intuito e i suoi poteri è tentata di gettarli via: a che vale vedere e sapere tante cose? E’ più facile gettar via la luce e andarsene a dormire. Talvolta è difficile portare il teschio- luce perché vediamo tutti i lati nostri e degli altri, quelli sfigurati e quelli divini. Ma con questa luce si arriva alla consapevolezza, si può vedere il cuore buono oltre l’azione cattiva, la dolcezza schiacciata sotto l’odio. La sua luce è parimenti vivida sui nostri tesori e le nostre debolezze. Sono queste le conoscenze più difficili da affrontare.

Il teschio osserva la matrigna e le sorellastre. Un aspetto negativo della psiche può essere disidratato se lo si trattiene nella consapevolezza. Non è possibile trattenere la consapevolezza guadagnata incontrando la Dea Strega se si vive con persone crudeli all’interno o all’esterno. Se vi circondano persone che alzano gli occhi al soffitto quando parlate, agite e reagite, allora vi trovate con persone che spengono le passioni, le vostre e le loro. Amici e amanti possono diventare come una cattiva matrigna o abominevoli sorellastre. L’amante distruttivo deve essere evitato. Per la donna selvaggia va bene se l’amante è appena un pochettino psichico, una persona che può “vedere dentro” al suo cuore.

Il modo per mantenere il collegamento con il selvaggio è domandarsi che cosa davvero si vuole. Una delle più importanti discriminazioni è la differenza tra le cose che ci fanno un cenno e cose che chiamano dall’anima. Chiediamoci cosa veramente vogliamo e poi andiamo alla ricerca

Il ricorso alla natura istintiva fa erompere una spontaneità che non è mancanza di saggezza. Restano importanti i buoni confini.

Alla fine del rimontaggio dell’iniziazione nella psiche femminile abbiamo una giovane dalle esperienze formidabili che ha imparato a seguire la sua conoscenza, ha resistito a tutti i compiti fino all’iniziazione completa. L’intuito va trattenuto nella consapevolezza e bisogna lasciar vivere quello che può vivere, e lasciar morire quel che deve morire.

Lasciar morire le cose è il tema finale del racconto.

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C’era una volta, e una volta non c’era, una giovane madre che giaceva sul letto di morte, il volto bianco come le rose di cera della sagrestia della chiesa accanto. La figlioletta e il marito sedevano in fondo al letto di legno e pregavano Dio. La madre chiamo a sé Vassillissa e la piccola dagli stivaletti rossi e dal grembiulino bianco s’inginocchiò accanto alla mamma.
“Ecco, questa bambola è per te, tesoro mio” sussurrò la mamma. E da sotto le coperte tirò fuori una bambolina che come Vassillissa indossava stivaletti rossi, grembiulino bianco, gonna nera e corsetto ricamato. “Se ti perderai o avrai bisogno di aiuto, domanda a questa bambola che fare. Tienila sempre con te, non parlarne a nessuno e nutrila quando ha fame”. E il respiro le ricadde nelle profondità del corpo, dove raccolse l’anima e sfuggì dalle labbra.
La bambina e suo padre a lungo piansero e si disperarono. Ma poi, come il campo crudelmente sconvolto dalla guerra, la vita del padre rinverdì e sposò una vedova che aveva due figlie.
Sebbene esse avessero modi educati e sorridessero sempre come vere signore, dietro ai loro sorrisi c’era qualcosa del roditore che il padre di Vassillissa non notava. Quando le tre donne erano sole con Vassillissa la tormentavano, la costringevano a servirle, la mandavano a tagliare la legna. La odiavano perché c’era in lei una bellezza ultraterrena.
Un giorno la matrigna e le sorellastre non la sopportarono più. “Facciamo in modo che il fuoco si estingua, e poi mandiamola nella foresta dalla Baba Yaga a chiedere il fuoco. Così la Baba Yaga la ucciderà e se la mangerà”. Squittirono come esseri che vivono nell’oscurità. Così quella sera, quando Vassillissa tornò da aver raccolto la legna, la casa era tutta al buio. Domandò alla matrigna: “Come faremo a cucinare? Come faremo a rischiarare le tenebre?”
“Stupida ragazza, ovviamente non abbiamo fuoco. Devi andare a cercare la Baba Yaga a chiederle un carbone per riaccendere il fuoco”. “Benissimo lo farò” rispose Vassillissa, e si avviò. Nel bosco l’oscurità si faceva sempre più fitta, e i ramoscelli che le scricchiolavano sotto i piedi la riempivano di paura. Infilò la mano nella tasca del grembiule, dove nascondeva la bambola che la mamma le aveva dato, e subito si sentì meglio. E a ogni biforcazione Vassillissa infilava la mano nella tasca e consultava la bambola, e la bambola le indicava da che parte andare.
Improvvisamente un uomo vestito di bianco su un cavallo bianco passò al galoppo, e si fece più chiaro. Poi passò un uomo vestito di rosso su un cavallo rosso, e sorse il sole. Cammina, cammina Vassillissa arrivò alla tana della Baba Jaga, e proprio in quel momento un cavaliere vestito di nero su un cavallo nero penetrò nella baracca. Subito si fece notte.
La Baba Jaga era veramente una creatura spaventosa. Viaggiava su un mortaio che si spostava da solo. Guidava questo veicolo con un remo a forma di pestello, e intanto cancellava le tracce alle sue spalle con una scopa fatta con i capelli di persone morte da gran tempo. E il mortaio volava nel cielo con i capelli grassi della Baba Jaga che svolazzavano dietro. Il lungo mento era ricurvo verso l’alto e il lungo naso verso il basso, così si incontravano al centro. Aveva una barbetta a punta tutta bianca e verruche sulla pelle. Le unghie nere erano spese e ricurve e tanto lunghe che non poteva chiudere la mano a pugno..
Ancora più strana era la casa della Baba Jaga. Posava su un mucchio di zampe gialle di gallina, camminava da sola e qualche volta volteggiava come una ballerina in estasi. Le maniglie delle porte e delle finestre erano fatte con dita umane di mani e di piedi e il chiavistello era un grugno di denti appuntiti.
Vassillissa consultò la bambola e lei le rispose che quella era la casa che cercava. E d’improvviso la Baba Jaga nel suo mortaio calò su Vassillissa urlandole: “Cosa vuoi?”. La fanciulla tremava: “Nonna, sono venuta per il fuoco…ho bisogno di fuoco”. ” Oh, sìììì ti conosco, e conosco i tuoi. Dunque, essere inutile…hai lasciato spengere il fuoco. E che cosa ti fa pensare che io ti darò la fiamma?” Vassillissa consultò la bambola e rispose. “Perché chiedo”. La Baba Jaga disse soddisfatta. “Sei fortunata. E’ la risposta giusta”. E Vassillissa si sentì fortunatissima per aver dato la risposta giusta.
Baba Jaga la minacciò: “Non potrò darti il fuoco finchè non avrai fatto del lavoro per me. Se adempirai questi compiti per me, avrai il fuoco. Se no…”. E Vassillissa vide gli occhi della Baba Jaga trasformarsi in braci ardenti. “Se no, cara bambina, morirai”.
La Baba Jaga ordinò a Vassillissa di portarle quello che stava cuocendo nel forno. Nel forno c’era cibo per dieci persone e la Baba Jaga lo mangiò tutto, lasciando una piccola crosta e un cucchiaio di minestra per Vassillissa. “Lavami i vestiti, scopa il cortile e la casa, e separa il grano buono da quello cattivo e vedi che tutto sia in ordine. Se quando torno non avrai finito sarai tu il mio banchetto”. E la Baba Jaga volò via sul suo mortaio. E cadde di nuovo la notte.
Quando la Baba Jaga se ne fu andata la bambola rassicurò Vassillissa che ce l’avrebbe fatta, le disse di mangiare qualcosa e di andare a dormire. Vassillissa rifocillò anche la bambola e si addormentò.
Al mattino la bambola aveva fatto tutto, e non restava che preparare il pasto. La sera la Baba Jaga tornò e trovò che non era rimasto nulla da fare. In parte contenta, e in parte no, sibilò: “Sei una ragazza molto fortunata”. Chiamò poi i suoi fedeli servitori perché macinassero il frumento, e tre paia di mani comparvero a mezz’aria e cominciarono a raschiare e a pestare il frumento. La pula volava per la casa come una neve dorata. Quando fu tutto finito la Baba Jaga si sedette a mangiare. Mangiò per ore e ordinò a Vassillissa di pulire di nuovo tutta la casa, di scopare il cortile e lavarle i vestiti. “In quel mucchio di sporcizia ci sono molti semi di papavero. Per domattina voglio una pila di semi di papavero e una pila di sporcizia, ben separati”.
Quella notte la Baba Jaga dormì come un ghiro. Vassillissa cercò…di raccogliere…i semi di papavero…tra la sporcizia. Dopo un po’ la bambola le disse: “Ora dormi. Andrà tutto bene”. di nuovo la bambola si occupò di tutto e quando la vecchia tornò a casa era stato tutto fatto. La Baba Jaga chiamò i suoi fedeli servitori perché spremessero l’olio dai semi di papavero.
Mentre la Baba Jaga si insudiciava le labbra con il grasso dello stufato, Vassillissa le stava accanto. “Posso farti qualche domanda, nonna?”. “Domanda pure, ma ricordati che troppo saprai, presto invecchierai”. Vassillissa chiese dell’uomo bianco sul cavallo bianco. “Quello è il mio giorno”, rispose la baba Jaga intenerita. “E l’uomo in rosso sul cavallo rosso?”. “Oh, quello è il mio sole nascente”. “E l’uomo sul cavallo nero?”. “Quello è il terzo, ed è la mia notte. Vieni qui, vuoi farmi altre domande?”, le disse con tono suadente. Vassillissa stava per chiederle di quelle strane mani, ma la bambola cominciò ad agitarsi nella tasca e allora disse: “No nonna. Come tu stessa hai detto, troppo saprai, presto invecchierai”.
“Ah” disse la Baba Jaga “sei più saggia dei tuoi anni. E come hai fatto a diventare così?”. “Grazie alla benedizione della mia mamma” disse sorridendo Vassillissa. “Benedizione?! Non abbiamo bisogno di benedizioni qui! Meglio che tu te ne vada” e la spinse fuori. Ma prima le dette un teschio dagli occhi ardenti e lo infilò su un bastone. “Ecco, prendi il tuo fuoco e portatelo a casa”.
Vassillissa corse a casa, seguendo il percorso che la bambola le indicava. Era notte, e Vassillissa attraversò la foresta con il teschio sul bastone, con il fuoco che usciva dall’orecchio, dall’occhio, dal naso e dalla bocca del teschio. D’improvviso provò paura di quella luce fantastica e pensò di gettarlo, ma il teschio le parlò e la invitò a calmarsi e proseguire.
La matrigna e le sorellastre si avvicinarono alla finestra e videro una strana luce danzante nei boschi. Sempre più si avvicinava. Vassillissa si avvicinava sempre di più e quando la matrigna e le sorellastre la riconobbero le corsero incontro e le dissero che non avevano avuto più fuoco da quando se n’era andata.
Vassillissa entrò in casa con un senso di trionfo. Ma il teschio sul bastone osservava ogni mossa delle sorellastre e della matrigna, e la mattina dopo aveva bruciato e ridotto in cenere il malvagio terzetto

Barbablù

barbabluBARBABLU (versione in cui si mescolano la francese e la slava)

Una matassina di barba è conservata in un convento di monache lontano sulle montagne. Come sia arrivata al convento nessuno lo sa. Alcuni dicono che furono le monache a seppellire quello che restava del suo corpo, perché nessun altro lo avrebbe toccato. Perché mai le monache conservino una siffatta reliquia nessuno lo sa, ma è vero. L’amica della mia amica l’ha vista con i suoi occhi. dice che la barba è blu-indaco per l’esattezza. E’ blu come il ghiaccio scuro sul lago, blu come l’ombra di un buco di notte. Questa barba apparteneva un tempo ad uno che dicevano fosse un mago mancato, un gigante con un debole per le donne, un uomo noto con il nome di Barbablu. Si diceva corteggiasse tre sorelle contemporaneamente.Ma quelle erano spaventate dalla barba dallo strano colore, e così si nascondevano quando le chiamava. Nel tentativo di convincerle della sua mitezza, le invitò a una passeggiata nel bosco. Arrivò con cavalli ornati di campanelli e di nastri cremisi, sistemò le sorelle e la loro madre sui cavalli,e al piccolo galoppo si avviarono nel bosco.

Fecero una stupenda cavalcata, con i cani che correvano davanti e accanto a loro. Poi si fermarono sotto un albero gigantesco e Barbablù le intrattenne raccontando storie e offrì loro leccornieLe sorelle cominciarono a pensare: “Insomma, questo Barbablù forse non è poi tanto cattivo”.

Tornarono a casa e non finivano di parlare di quella giornata così interessante, di quanto si erano divertite, pure, riaffioravano i sospetti e i timori nelle due sorelle maggiori, ed esse giurarono di non rivedere mai più Barbablù. Ma la più piccola pensò che se un uomo poteva essere tanto affascinante, allora forse non era poi tanto cattivo. Più rimuginava tra sé, meno le sembrava terribile, e anche la barba le pareva meno blu.

Così quando Barbablù chiese la sua mano, lei accettò. Aveva accolto con orgoglio la proposta di matrimonio, e pensava di sposare un uomo molto elegante. Si sposarono, e poi andarono al suo castello nei boschi.

Un giorno andò da lei e le disse: “Devo andare via per qualche tempo. Invita qui la tua famiglia, se ti fa piacere. Potrete cavalcare nei boschi, ordinare ai cuochi di preparare un banchetto, potrai fare tutto quello che vuoi, tutto quello che il tuo cuore desidera. Puoi aprire tutte le porte dei magazzini, le stanze del tesoro, qualunque porta del castello; ma non usare questa piccola chiave con la spirale in cima”.

Rispose la sposa: “Sì, farò come dici. Mi sembra bellissimo. Vai dunque, mio caro marito, non preoccuparti e torna presto”. Così lui partì, e lei rimase.

Le sorelle andarono a trovarla e, come tutte le donne, erano molto curiose di sapere che cosa il padrone aveva detto di fare durante la sua assenza, gaiamente la giovane sposa raccontò tutto.

Le sorelle decisero di fare il gioco di trovare quale chiave apriva quale porta. Il castello era di tre piani, con un centinaio di porte in ogni ala, e siccome molte erano le chiavi del mazzo, si divertirono immensamente a passare da una porta all’altra. Dietro a una porta c’erano le dispense, dietro a un’altra i depositi delle monete. In ogni stanza c’erano beni di ogni sorta. E ogni volta sembrava tutto più meraviglioso. Alla fine arrivarono alla cantina.

Si scervellarono sull’ultima chiave, quella con la piccola spirale in cima. Udirono uno strano suono, sbirciarono dietro l’angolo e – guarda, guarda!- c’era una porticina che si stava appunto richiudendo. Cercarono di riaprirla, ma era sprangata. Una gridò: “sorella, sorella porta la tua chiave. Sicuramente è questa la porta della misteriosa chiavetta”.

Senza riflettere neanche un momento una delle sorelle infilò e girò la chiave nella toppa. La serratura scattò, la porta si spalancò, ma dentro era così buio che non potevano vedere nulla.

“sorella, sorella porta una candela”. Venne accesa una candela e portata nella stanza, e le tre donne lanciarono tutte insieme un urlo perché la stanza era un lago di sangue e ossa annerite di cadaveri erano sparse ovunque, e negli angoli i teschi erano impilati come piramidi di mele. Richiusero velocemente la porta, sfilarono la chiave dalla toppa e si aggrapparono l’una all’altra, respirando affannosamente. Dio mio! Dio mio!

La sposa guardò la chiave e vide che era macchiata di sangue. Terrorizzata usò l’orlo della gonna per ripulirla, ma il sangue restava. Ogni sorella prese la chiavetta in mano e cercò di farla diventare come prima ma il sangue non se ne andava. La sposa si nascose in tasca la piccola chiave e corse in cucina. Quando arrivò, il suo abito bianco era macchiato di rosso dalla tasca all’orlo perché la chiave lentamente versava gocce di sangue rosso scuro. Ordinò al cuoco di darle uno strofinaccio, strofinò la chiave, ma non smetteva di sanguinare, goccia su goccia, puro sangue rosso. Portò fuori la chiave, la strofinò con la cenere. La ricoprì di ragnatele per arrestare il flusso, ma niente riusciva ad arrestare il sangue. Pensò di nasconderla, la mise nell’armadio e chiuse la porta.

Il marito tornò la mattina dopo ed entrò nel castello chiamando la sua sposa. “allora, com’è andata durante la mia assenza?”

“E’ andato tutto bene sire”

“bene, allora sarà meglio che tu mi restituisca le chiavi”

con una rapida occhiata si accorse che mancava una chiave. “Dov’è la chiave più piccola?”

“Io…io l’ho perduta. Stavo cavalcando e il mazzo di chiavi mi è caduto”

“Non mentirmi! Dimmi cosa hai fatto con quella chiave!”

le posò una mano sulla guancia come per accarezzarla, ma invece la afferrò per i capelli. “Infedele” ringhiò, e la gettò a terra “sei stata nella stanza, vero?”

Spalancò l’armadio e la piccola chiave sul ripiano in alto aveva sanguinato sangue rosso sulle belle sete dei suoi abiti appesi lì.

“Ora tocca a te mia signora” urlò, e la trascinò nella cantina, fino alla terribile porta. La porta si aprì. Là giacevano gli scheletri di tutte le sue mogli precedenti.

“Eccoci!” ruggiva, ma lei si era aggrappata alla porta e non lasciava la presa. Implorò per la sua vita ” ti prego, consentimi di raccogliermi per prepararmi alla morte. Concedimi un quarto d’ora per trovarmi in pace con Dio”.

“va bene avrai un quarto d’ora, e fatti trovare pronta”.

La sposa salì di corsa le scale per raggiungere la sua camera e per mandare le sue sorelle sui bastioni del castello. Interrogava le sorelle.

“Sorelle, sorelle! Vedete arrivare i nostri fratelli?”

“Non vediamo nulla, nulla sulle pianure aperte”

“Vediamo un turbine in lontananza, forse un polverone”

Intanto Barbablù chiamò a gran voce la moglie perché scendesse in cantina, dove l’avrebbe decapitata.

“Sorelle, sorelle! Vedete arrivare i nostri fratelli?”

Urlarono le sorelle: “Sì, vediamo i nostri fratelli che arrivano ed entrano nel castello!”

Barbablù si lanciò verso la camera della moglie. Pesanti erano i suoi passi, le pietre del vestibolo si aprirono, la sabbia della calcina cadde sul pavimento.

Mentre <Barbablù entrava nella stanza con le mani tese per afferrarla, i fratelli a cavallo percorsero a cavallo il vestibolo del castello e a cavallo entrarono nella stanza. Lanciarono Barbablù sul bastione, con le spade sguainate avanzarono verso di lui, colpendo e fendendo, tagliando e sferzando, lo abbatterono a terra, uccidendolo infine e lasciando alle poiane il suo sangue e le cartilagini.

barbablu

Questa storia riguarda l’uomo nero che abita la psiche di tutte le donne, il PREDATORE INNATO. Barbablù rappresenta un complesso di profonda reclusione che si acquatta ai margini della vita di ogni donna e osserva, in attesa di un’occasione per contrastarla. Dobbiamo riconoscerlo, proteggerci dalle sue devastazioni e infine privarlo della sua energia sanguinaria.

Donne ingenue come prede. La donna INGENUA sarà catturata dal suo stesso cacciatore interiore. Nella storia, la sorella più giovane mostra una totale ingenuità sui propri processi mentali e una totale ignoranza dell’aspetto delittuoso della propria psiche, si lascia adescare dai piaceri dell’IO. Tutti gli esseri umani vogliono raggiungere il paradiso subito, ma l’intenso desiderio del paradisiaco, se si combina all’ingenuità, fa di noi cibo per il predatore. Un precoce addestramento a “mostrarsi carine” induce le donne a calpestare le proprie intuizioni.

Alcuni aspetti della psiche, rappresentati dalle sorelle maggiori, sono dotati di maggiore introspezione, le loro voci vanno ascoltate. La donna ingenua insiste nella mossa distruttiva, come spinta da un coatto barbabluesco. In un angolo riposto della sua mente ci sono sicuramente le sue sorelle maggiori che le dicono: “No, basta! Non fa bene alla mente ne’ al corpo. Ci rifiutiamo di continuare” Ma il desiderio di trovare il paradiso spinge la donna a sposare Barbablù, il mercante di droga per le vette psichiche. La promessa ingannevole del predatore è che la donna diverrà regina, invece si programma il suo assassinio.

La chiave. La piccola chiave è l’accesso al segreto che tutte le donne sanno e che pure non sanno. La donna ingenua accetta di “non sapere”. Proibire a una donna di usare la chiave della consapevolezza la priva del suo naturale istinto alla curiosità e della scoperta di “quello che sta sotto”. Decidendo di aprire la porta della stanza segreta, una donna sceglie la vita. Banalizzare la curiosità femminile nega l’introspezione, le impressioni, le intuizioni della donna. Cerca di attaccare il suo potere fondamentale.

Porsi la domanda giusta è l’azione centrale della trasformazione. La domanda-chiave provoca la germinazione della consapevolezza. Le domande sono le chiavi che fanno spalancare le porte segrete della psiche.

Lo Sposo- Bestia. Una donna può cercare di nascondersi le devastazioni della sua esistenza, ma l’emorragia (il sangue sulla chiave), la perdita dell’energia vitale, continuerà finche non riconoscerà il predatore per quello che è e non lo controllerà. Quando le donne aprono la porta della loro esistenza ed esaminano la carneficina, per lo più scoprono di aver permesso l’assassinio dei loro sogni, dei loro obiettivi delle loro speranze. Quando si fa questa scoperta nella propria psiche è certo che il predatore naturale ha lavorato alla distruzione dei più cari desideri di una donna.

L’odore del sangue. Il sangue rappresenta la decimazione degli aspetti più profondi e legati all’anima della vita creativa. In questo stato la donna perde l’energia per creare. Quando la chiave sanguinante – la domanda urlante- macchia i nostri personaggi, non possiamo più nascondere i nostri travagli. Non possiamo più far finta di non aver visto la stanza della morte. L’io censorio certamente desidera dimenticare di aver visto la stanza, di aver visto i cadaveri, la sposa cerca di pulire la chiave, ma non ci riesce. Quella che prima era un’ingenua deve ora affrontare l’accaduto. Il predatore è particolarmente aggressivo nel tendere imboscate alla natura selvaggia delle donne. Per questo le domande vanno poste e devono ricevere una risposta. Il lavoro più profondo di solito è il più buio, non abbiate quindi paura di indagare il peggio, solo così è garantito un aumento del potere dell’anima. La Donna Selvaggia non teme l’oscurità più oscura, gli avanzi, gli scarti, la rovina, il fetore, il sangue, le ossa fredde, le ragazze morenti o i mariti assassini. Può vedere, sopportare, aiutare. Gli scheletri nella stanza rappresentano la forza indistruttibile del femminino

La giovane e le sue sorelle sono capaci di spezzare il vecchio modello di ignoranza e di contemplare un orrore senza volgere altrove lo sguardo Barbablù uccide e demolisce una donna finche non ne restano che le ossa. Noi dobbiamo osservare la cosa mortale che si è impadronita di noi, vedere il risultato del suo lavoro, registrarlo consciamente e poi agire. Trovare i corpi, seguire gli istinti, vedere, smantellare l’energia distruttiva.

Nascondersi e spiare. Per sfuggire a un predatore l’anima si nasconde sotto terra e ogni tanto fa capolino per vedere se si allontana. In Barbablù la psiche cerca di non farsi uccidere. E’ diventata astuta, chiede tempo per rinforzarsi. Quando una donna comprende di essere stata preda, sia nel mondo esterno che in quello interno, non riesce a sopportarlo. Programma l’uccisione della forza predatoria. Il suo complesso predatorio si affanna nel tentativo di bloccare tutte le vie di fuga, diviene sanguinario. In questo tempo critico addormentarsi vuol dire morire. Bisogna invece spostarsi dallo stato di vittima a quello di persona acuta, vigile, attenta. A questo punto non si deve tremare, ne’ umiliarsi.

L’urlo. I fratelli psichici sono i propulsori più muscolosi della psiche, sono la forza che può agire quando è tempo di uccidere. La donna deve esercitarsi a richiamare la sua natura combattiva, il suo vortice di vento. Quando le donne riaffiorano dall’ingenuità, portano con sé qualcosa di inesplorato, in questo caso un’energia maschile interiore. Quando questa natura del sesso opposto è in buona salute ama la donna in cui alberga e la aiuta a compiere quello che lei chiede. Più l’animus è forte e vasto, maggiori saranno le capacità con cui la donna manifesterà le sue idee e il suo lavoro creativo nel mondo esterno in modo concreto.

I mangiatori di peccati. Il corpo di Barbablù viene lasciato ai mangiatori di carogne. Nei tempi antichi esistevano i mangiatori di peccati, che si assumevano i peccati, i rifiuti della comunità. Invece di insultare il predatore della psiche, o di sfuggirgli, lo smembriamo, catturiamo i pensieri irritanti prima che diventino troppo grandi da nuocerci e li smantelliamo, contrapponendogli le verità che ci alimentano. Riprendere l’energia dal predatore e trasformarla in altro.

Barbablu è un racconto di ingenuità psichica, ma anche della possente rottura dell’ingiunzione di “apparire”.

L’uomo nero. Il sogno dell’uomo nel buio. Nella storia di Barbablu si parla della trasformazione di quattro introiezioni vaghe e indistinte: non avere visione, non avere introspezione, non avere voce, non avere azione. Per bandire il predatore dobbiamo fare il contrario. Dobbiamo spalancare la porta per vedere cosa c’è dentro la stanza. Dobbiamo usare l’introspezione e la capacità di sopportare la visione. Dobbiamo enunciare con voce chiara la nostra verità ed essere capaci di fare quanto è necessario nei confronti di ciò che vediamo..

Per l’ingenua e per la donna dall’istinto leso la cura è la stessa: esercitarsi ad ascoltare l’intuito, porsi domande, essere curiosa, vedere quel che si vede, ascoltare quel che si sente, e poi agire in base a ciò che si sa essere vero.

Quando facciamo sogni con l’uomo nero, un potere contrario sta sempre appostato in attesa di aiutarci. La donna selvaggia., che insegna alle donne a non essere “carine” quando si tratta di proteggere la vita dell’anima Essere “dolci” in questi casi fa solo sorridere il predatore. Quando la vita dell’anima è minacciata non soltanto è accettabile tirare una riga, è indispensabile.