storie di donne migranti centroamericane

riportiamo da global project:

Forum a San Cristobal de Las Casas

Storie di donne migranti centroamericane

La doppia discriminazione

Utente: orsetta

10 / 5 / 2010

Negli anni ’50 Giovanna, una mia lontana parente emigrata in Argentina, decise di tornare in Italia. Il marito non rispettò la sua promessa: non la raggiunse in Europa, le lasciò i figli da crescere e si costruì una nuova famiglia in Argentina. Giovanna è quella che si definisce una “vedova bianca”.

Anche Maria è una vedova bianca. Si sposò incinta nei primi anni ’80, a soli tredici anni, e poco dopo il marito lasciò la piccola comunità del Guatemala in cui vivevano per emigrare negli Stati Uniti. Inizialmente scriveva e mandava soldi, poi sparì. Maria continuò a vivere sotto l’ombra invisibile del marito, spiata e controllata dai parenti e dal resto della comunità. Lavorava la terra per mantenere il figlio, ma non aveva titoli di proprietà su di essa. Le donne lavorano la terra, ma solo gli uomini la possono possedere.

Sei anni dopo l’abbandono del marito, Maria rimase incinta. Se l’avesse scoperto la sua comunità l’avrebbe giudicata ed emarginata: una vedova bianca non ha diritto ad una vita sessuale e sentimentale. “Nascose la sua gravidanza anche a me, che sono sua sorella”, mi dice Petronia fra le lacrime. Pochi mesi dopo il parto, la vergogna spinse Maria a scappare negli Stati Uniti, lasciando il figlio a Petronia. La disgregazione familiare è una delle conseguenze della migrazione, e a sua volta causa altri fenomeni sociali come la violenza giovanile, la tossicodipendenza e la prostituzione.

Qualche anno dopo anche Petronia decise di rifugiarsi negli Stati Uniti, lontana dalle violenze del marito. Come molte altre migranti trovò poca fortuna e tanta infelicità, che la rispinsero alla sua comunità di origine.

Petronia oggi fa parte della Commissione per i Diritti della Donna, un collettivo di Huehuetenango (Guatemala). L’ho incontrata a San Cristobal de Las Casas (Messico), durante il Forum “Donne, salute e migrazione”, organizzato dall’Associazione Civile FoCa. Uno spazio in cui dal 12 al 14 aprile si sono incontrate più di quaranta attiviste per i diritti della donna di vari stati del Messico e Centroamerica.

Sono tante le storie che sono state raccontate durante il forum. Storie di donne che rimangono mentre il marito se ne va, donne che emigrano e donne che tornano, come Giovanna, Petronia e Nancy.

Di Nancy me ne ha parlato Ofelia, che fa parte di un’organizzazione femminista della sierra di Guerrero, nel sud del Messico. Nancy partì dalla sua comunità per percorrere il deserto che divide il Messico dagli Stati Uniti e passare la frontera. Era sola ed incinta di tre mesi. Fu rapita dal pollero – il caronte che la doveva transitare verso il sogno americano – che la picchiò e violentò fino a farle perdere il bambino. Fu rilasciata quando i suoi parenti negli Stati Uniti pagarono il riscatto, ma non riuscì mai a raggiungerli, e dopo un periodo trascorso a Tijuana tornò alla sua comunità.

Molte donne che come Nancy si spostano verso nord finiscono per fermarsi in luoghi che dovevano essere solo di transito. In fuga da paesi poverissimi, si ritrovano a vivere in regioni altrettanto povere, in cui vengono sfruttate da chi si approfitta della loro condizione di indocumentate. Nello stato messicano del Chiapas, il 90% delle prostitute sono immigrate provenienti dai paesi centroamericani.

Le donne che migrano sono doppiamente discriminate: in quanto migranti e in quanto donne. Quante siano esattamente non si sa, non ci sono statistiche nè registri ufficiali. Non si sa nemmeno quante siano le bambine con una storia simile a quella di Rosa.

A 9 anni Rosa, che viveva in Costa Rica con la sua famiglia emigrata dal Nicaragua, fu violentata da uno sconosciuto e rimase incinta. Malgrado riportasse delle gravi infezioni e il suo piccolo corpo non fosse in grado di reggere una gravidanza, per abortire fu costretta a ritornare nel suo paese, fuggendo quasi di nascosto dal Costa Rica con la sua famiglia. A 15 anni Rosa rimase nuovamente incinta, questa volta a causa degli abusi commessi dal padre.

“La violenza è causata dai ruoli di potere assegnati socialmente”, dice Maria José dell’organizzazione costaricense CEFEMINA. Questi possono creare una catena della violenza: l’uomo, umiliato e sfruttato sul lavoro, commette violenza sulla propria moglie. La donna, frustrata, picchia il figlio, che a sua volta si sfogherà sul fratello più piccolo, il quale non potrà far altro che prendersela col proprio cane.

L’analisi di Maria José e delle altre attiviste intervenute al forum è che l’attuale sistema economico, capitalista e patriarcale, crea la discriminazione che viene riprodotta dalle persone attraverso il loro comportamento. La discriminazione genera poi violenza.

Per creare fratture nel meccanismo violenza/discriminazione, le organizzazioni e i collettivi presenti hanno deciso di formare la Rete Mesoamericana Donne Salute e Migrazione, che permetterà un coordinamento tra le azioni in difesa dei diritti della donna nei vari paesi. I diritti che, come ci ha ricordato la guatemaltecaClara, si devono esigere e non supplicare.

La balera di Filomèla: spettacolo sul tema della violenza contro le donne

Teatro Julio Cortazar
Via Ricostruzione 40 – Pontelagoscuro
Ferrara

29 maggio, 30 maggio, 3 giugno, 6 giugno, 10 giugno

La Balera di Filoméla
teatro, canto, danza e poesia
sul tema della violenza contro le Donne
uno spettacolo del gruppo
DONNE COMUNITARIE
coordinamento, idea e messa in scena
Cora Herrendorf

“La Balera di Filoméla” vede in scena un gruppo di donne dai 18 ai 75 anni, le Donne Comunitarie che, condotte dalla regista Cora Herrendorf, hanno cercato in se stesse e nel mondo i vissuti di piccole e grandi violenze, cicatrici e ferite mai rimarginate.
I propri ricordi e le tracce lasciate da altre si sono fatti parola, gesto, azione, suono, immagine; attraverso la condivisione, la solidarietà e il gioco teatrale da personali sono divenuti storia e memoria collettiva.
Nella Balera ognuna è altre donne, varie donne, personaggi incontrati nella vita, nella letteratura, nelle cronache quotidiane.
In scena l’ironia attraversa il tempo: il linguaggio del Cabaret evidenzia la forza liberatrice della risata, la possibilità di ridere muovendosi nel profondo.
Il pubblico viene coinvolto in scene che assumono tutti i registri, dal drammatico all’epico al comico, attraverso i quali ogni attrice interpreta diversi personaggi, canta e danza alla ricerca di una empatia, un coinvolgimento attivo e un impatto emotivo diretto e costante con lo spettatore.

“Filoméla” è il mito che conclude il sesto libro delle Metamorfosi di Ovidio, dove si racconta dello stupro che la giovane figlia del re di Atene subisce dal cognato Teseo che, per impedirle di raccontare l’accaduto, le mozza la lingua.
Così Filomela comincia a tessere su una tela la scena della violenza subita con lo specifico scopo di essere udita dalla sorella, Progne, moglie di Teseo.
Il telaio ricompone ciò che la violenza riduce in pezzi: il legame fra sorelle, il potere della donna di parlare, la forma della comunità, la comunicazione.
La metafora del ricamo riguarda il fare, i gesti, i segni che esprimono il pensiero femminile; concreto, lento e faticoso, spesso doloroso, ma non riconosciuto, perché dissolto dal tempo, non fermato dalle pagine della Storia, scritta e dettata dal potere maschile.
Il pensiero femminile non trova espressione di genere, la donna è “senza voce”.
Ma attraverso i secoli il pensiero femminile ha imparato a celarsi, per non essere ridotto al silenzio assoluto.

Al processo di creazione dello spettacolo hanno collaborato in vario modo l’Udi di Ferrara, il Centro Donne e Giustizia e il Centro Documentazione Donna del Comune di Ferrara

Teatro Julio Cortazar
Via Ricostruzione 40 – Pontelagoscuro

Ferrara

Le prossime date dello spettacolo:

30 Maggio ore 20
Giovedì 3 Giugno ore 21
Domenica 6 Giugno ore 20
Giovedì 10 Giugno ore 21

pronunciamento del femminismo comunitario latinoamericano alla conferenza dei popoli sul cambiamento climatico

Vi ho già parlato della conferenza dei popoli sul cambiamento climatico che si è tenuta a Cochabamba dal 20 al 22 aprile. Molte notizie su come è andata la conferenza le potete trovare qui e qui potete trovare la dichiarazione finale.

Poi ho tradotto da kaosenlared questo pronunciamento piuttosto critico delle femministe comunitarie ispanoamericane sullo svolgimento della “Cumbre” (mi scuserete la traduzione un pò affrettata):

A Tiquipaya, vicino a Cochabamba, Bolivia, ci siamo incontrate con altre donne che stavano sentendo e pensando quello che noi stavamo dicendo a partire dal documento che abbiamo presentato al tavolo 152 come assemblee del femminismo comunitario, e dai contributi di compagne latinoamericane, indigene e di altre sorelle e compagne femministe nasce questo pronunciamento che sappiano non essere stato ascoltato dagli organizzatori molto “patriarchi” di questa “Cumbre”. Maschi che hanno discusso tra sè per misurare forze tra istituzionali e “alternativi” in tavoli presumibilmente “censurati”….Maschi che hanno gridato che vogliono il denaro, i fondi di “quelli del Nord” come risarcimento a quello che hanno fatto al sud…    Questo, tra molte altre cose, vogliamo dire alle sorelle, alle compagne e agli uomini antipatriarcali. Questo vogliamo pronunciare per e con la Pachamama:

PRONUNCIAMENTO DEL FEMMINISMO COMUNITARIO LATINOAMERICANO ALLA CONFERENZA DEI POPOLI SUL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Dal femminismo comunitario

Consideriamo la Pacha Mama (la mapu) un tutto che va oltre la natura visibile, che va oltre i pianeti, che contiene la vita, le relazioni che si stabiliscono tra gli esseri e la vita, le sue energie, le sue necessità e i suoi desideri. Affermiamo che intendere Pachamama come sinonimo di Madre terra è riduttivo e machista, poiché fa riferimento soltanto alla fertilità, per mantenere le donne e la Pachamama sottomesse all’arbitrio patriarcale.

“Madre terra” è un concetto utilizzato da molti anni, che si tenta di consolidare in questa Conferenza dei popoli sul cambiamento climatico con l’intenzione di ridurre la Pachamama- così come si riducono le donne- a una funzione di utero produttore e riproduttore al servizio del patriarcato. Si intende la Pachamama come qualcosa che può essere dominato e manipolato al servizio dello “sviluppo” e del consumo- e non la si concepisce come il cosmo, del quale l’umanità è solo una piccola parte.

Il cosmo non è il “Padre Cosmo”. Il cosmo è parte della Pachamama. Non accettiamo che “sposino”, che obblighino al matrimonio la Pachamama. Durante questa conferenza abbiamo ascoltato cose insolite, come il fatto che il “Padre Cosmo” esiste indipendentemente dalla Pachamama e abbiamo capito che non viene tollerato il protagonismo delle donne e della Pachamama, e non viene accettato neanche che lei e noi ci autodeterminiamo. Quando si parla del “Padre Cosmo” si cerca di minimizzare e subordinare la Pachamama a un Capo di famiglia maschio e eterosesuale. Però lei, la Pachamama, è un tutto e non ci appartiene. Noi tutte/i siamo parte di lei.

Comunità

Concepiamo la comunità come essere in se stessa, con una identità propria. Donne, uomini, terra, animali, vegetali. Verticalmente, in alto- cielo, spazio aereo e tutti i suoi esseri viventi-, in basso- sotterraneo, vita animale, vegetale e minerale. E orizzontalmente, qui- dove si muovono tutti gli esseri viventi umani, animali e vegetali- la estensione della terra e il territorio della comunità fino ai limiti che essa e le altre comunità designano.

Quando parliamo di comunità stiamo parlando di tutte le comunità. Urbane, rurali, territoriali, politiche, sessuali, comunità di lotta, educative, comunità di affetto, universitarie, comunità di tempo libero, comunità di amicizia, di quartiere, generazionali, religiose, sportive, culturali, comunità agricole, ecc.

crediamo che ogni gruppo umano possa, se lo decide, costruire comunità, eliminando la proprietà privata sui mezzi di produzione, riconoscendo ogni tipo di lavoro, a iniziare da quello domestico; ripartendo il lavoro in modo egualitario, in relazione alle capacità, abilità, desideri e necessità di ognuno, accettando i prodotti e i profitti che ognuno crea ed elabora- sia astratti che concreti- come beni comuni e individuali.

Parliamo di comunità e delle donne e uomini dei popoli indigeni, tuttavia non idealizziamo la comunità attuale nella quale persistono le relazioni di dominio e dove le donne sono la aggiunta degli uomini. Le comunità attuali sono patriarcali ed è per questo che stiamo proponendo un’altra forma di comunità, orizzontale e reciproca, dove li membri siano riconosciuti e rispettati come individui autonomi.

Una comunità non è una somma di individualità, bensì un altro luogo dinamico, più che la somma. La comunità nutre coloro che camminano nella comunità, ed essa, a sua volta, è alimentata dal lavoro, dallo sviluppo e dalle elaborazioni individuali e collettive che avvengono al suo interno.

Coloro che fanno parte della comunità hanno volti, corpi, voci specifiche- uniche- e si realizzano esprimendo talenti e capacità individuali. Perchè le persone elaborino, riflettano e pensino, sono necessari libertà e riconoscimento. Ognuna ed ognuno assume le necessità comunitarie e cerca di rafforzare quello spazio di appartenenza e di affetto che è la sua comunità. Si produce nella comunità un affetto per questa alterità: la comunità.

La comunità è un essere distinto da tutte e tutti e nello stesso tempo è tutte e tutti perchè l’appartenenza possiede una dinamica propria, un meccanismo che produce vicinanza affettiva, intellettuale, di valore e il riconoscimento del diritto di dissentire di ogni membro. La critica, la discussione, la differenza di opinioni, non vengono vissute come aggressione in una comunità che ha elaborato processi comunitari onesti e rispettosi.

Reciprocità

La comunità è retta dal principio di reciprocità non solo con la terra e il territorio, ma anche tra i suoi membri, e tra i suoi membri e la comunità.

La reciprocità non significa scambio di possessi. Non è: “mi dai e io ti do”, ma una relazione etica. Non è neanche dittatura impositiva retta da minacce fisiche e/o affettive. Comunità, come la intendiamo, è una relazione nella quale, anche se nessuna/o è obbligata/o, tutte e tutti sono abitate/i dalla impronta che le/li allinea con la comunità di appartenenza. Così il sentimento di percepire l’altro o l’altra come degno e uguale e l’impulso naturale di cercare la propria soddisfazione sarà parte del modo psicosociale di agire in modo comunitario.

I membri della comunità si amano tra loro- non per sangue o nascita-ma per storia, memoria, territorio, valore, aspettative. Il buen vivir del fratello o della sorella della comunità è una responsabilità ed un desiderio di tutte e tutti.

Nello stesso modo, quando una persona comunitaria offre ad un’altra un bene concreto o simbolico, lo fa sviluppando il proprio dono e la propria capacità di offrire. Questo la rallegra e la innalza eticamente, e le assicura che quando ne avrà bisogno saranno disponibili i beni materiali e simbolici per il suo buen Vivir.

Corpo e autonomia

la comunità è un corpo che appartiene a se stesso e che possiede una dinamica propria per cui ogni membro è unico e necessario, e allo stesso tempo autonomo/a, poiché l’autonomia sarà il principio che garantirà ad ogni persona eguaglianza, nella dignità e diritti, e che proverà la coerenza etica di una comunità che non opprime i suoi membri obbligandoli a essere identici o a realizzare usi e costumi patriarcali e di coercizione. Il corpo è lo strumento con cui gli esseri toccano la vita, quel corpo merita spazio e tempo concreto e simbolico per stare nel mondo, così la comunità rispetta quello spazio e quel tempo e anzi lo alimenta con affetto. Ogni corpo nella comunità, in senso generale e dinamico, è una parte dell’essere comunitario.

Il corpo della comunità è costituito da donne e uomini come da due parti imprenscindibili, non gerarchiche, reciproche e autonome una dall’altra, ma in permanente coordinazione.

L’autonomia come principio antipatriarcale è compresa nel contesto antigerarchico sia in senso concreto che simbolico, in quanto l’autonomia non significa slegarsi dagli/dalle altri/e, non vuol dire disinteressarsi della comunità, ma costituisce un processo continuo di coerenza con se stessa.

Autonomia implica l’essere e l’esistere del proprio mondo intimo e personale in comunità con il mondo pubblico-con il mondo comunitario. Implica il farsi carico del proprio modo di vedere, udire, sentire per portarlo alla comunità, perchè la comunità non può avere accesso a questo sguardo, a questo ascolto, né a questo sentimento unico. E’ soltanto la stessa persona comunitaria che ha accesso al proprio mondo intimo e personale e lo condivide con generosità con gli altri/e.

Così, essere autonoma/o è un vantaggio per se stessa-per se stesso-poichè significa per la persona coerenza, dignità e libertà. E un vantaggio dal quale neanche la comunità può prescindere giacchè essa si nutre di quella autonomia per guardare il mondo con gli occhi di ciascun membro. Così vedere in modo diverso non è conflitto, ma invece l’opportunità di ricercare la ricchezza e l’armonia degli sguardi di tutte e tutti per rafforzare la solidità della comunità. Un corpo comunitario di identici, oltre ad essere debole, non riuscirà a sviluppare saperi, tecnologie e nessun processo efficiente, perchè non ha diversi contributi da confrontare e coordinare.

Confronto politico invece di complementarità

Il confronto comunitario uomo-donna è un confronto politico, non di genere, né erotico-affettivo.

Confronto di genere significherebbe una complementarietà diseguale-una dicotomia- nella quale “il femminile” completa “il maschile” con tutte le attribuzioni e/o le assegnazioni patriarcali che questo significa: donne riproduttrici, forza lavoro domestica e sostenitrice affettiva dello squilibrio tra uomini e donne; e uomini produttori e possessori dei privilegi che gli vengono assicurati dal lavoro domestico e affettivo che perpetua la dipendenza delle donne. Comporterebbe anche dettami di usi e costumi eticamente ed esteticamente rigidi, che rafforzerebbero il genere come costruzione patriarcale del femminile-maschile.

D’altra parte confronto erotico-affettivo significherebbe eterosessualità, cioè l’obbligo sessuale amoroso per cui uomini e donne si accoppiano, negando così la diversità dei desideri erotici, sessuali e amorosi omosessuali e lesbici.

La proposta di comunità che facciamo come femminismo comunitario parte in primo luogo dal fatto che la vita di tutte e tutti si compie in tre ambiti che non sono spazi statici e contraddittori, ma dinamici e in costante influsso e conflitto reciproco: l’ambito intimo, personale e pubblico, e questo ha come asse centrale la sessualità.

Pachamama non è proprietà

Generalmente una comunità fa parte di un territorio determinato, sebbene il suo territorio possa essere anche una scelta nomade e la interrelazione di questa comunità con un territorio e le sue risorse un fatto temporaneo. In ogni caso la relazione con la Pachamama è una relazione reciproca e non di proprietà. Le persone sono parte della pachamama e la pachamama non è proprietà di nessuno. Essa è di se stessa e nello stesso tempo è nostra madre, ma che la pachamama sia nostra madre non vuol dire che dobbiamo strapparle le sue qualità e gli esseri che costituiscono la sua natura, come minerali, animali e vegetali, per l’arricchimento, il plusvalore o il lusso.

La pachamama garantisce la vita della comunità, senza di lei non c’è vita. Perciò la comunità a sua volta tratta la pachamama con rispetto, senza depredarla, senza eliminare, torturare o perseguitare gli essere che stanno in lei. Neanche la aliena, la vende o la compra, e di conseguenza non ci sono titoli di proprietà, ma solo delimitazione di limiti comunitari che rispettino i limiti delle comunità vicine.

I processi autonomistici nel mondo mostrano questa necessità creata dalla proprietà, la necessità di smembrare la pachamama, di parcellizzarla e ripartirla come un bottino. Sebbene l’autonomia possa essere intesa come una democratizzazione del potere di decisione, come l’approfondimento della decentralizzazione, nella sua materialità viene reclamata anche dai popoli indigeni che sono condizionati nel loro agire dal segno di uno Stato Neoliberista e Patriarcale che non gli lascia altra scelta se non quella di chiedere la proprietà del suo territorio, di quel cosmo, alberi, pietre e animali che convivono in equilibrio con loro; questo Stato non gli lascia altra scelta se non quella di esigere titoli di proprietà per confrontarsi legittimamente con corporazioni e multinazionali alle quali lo stesso Stato ha affittato il suo spazio vitale per sfruttarlo e depredarlo.

E’ necessario allora demolire lo Stato Patriarcale e Neoliberista nelle sue concezioni perverse per potere- come popoli- interagire con un confronto politico, con un eguale che prevede solo il benessere collettivo e individuale, ma che non lo determina, opprime e norma, come fanno gli stati oggi.

Non vogliamo reclamare la terra per le donne, ma annullare la proprietà patriarcale, la decisione unilaterale e il controllo maschile sulla terra, il territorio, i mari, i laghi ed il cielo. Vogliamo abolire la guerra che depreda, sottrae territorio e fa delle donne il suo Bottino di guerra.

Depredazione della pachamama e maternità obbligatoria delle donne

Una cosa è che la pachamama ci sostenga e ci contenga, che sia disposta od abbia le potenzialità per la nostra alimentazione, creazione e ricreazione, e un’altra che sia “diritto” dell’essere umano sfruttarla, comprarla, venderla, alienarla o depredarla.

Lo stesso con le donne, una cosa è il fatto che noi abbiamo la capacità di partorire e un’altra che questo sia un obbligo o una proibizione. Se una comunità manipola il corpo e la maternità delle donne  sta togliendo loro il diritto all’autodeterminazione. La proibizione di interrompere la gravidanza non desiderata o pericolosa per la vita e l’integrità fisica e psicologica di una donna è una violenza concreta e simbolica contro tutte le donne. Il controllo sul processo di gestazione e sul parto da parte degli stati, governi e altre istituzioni è un privilegio patriarcale che si regge sul genere e la violenza contro le donne, e che esigiamo che la comunità non ripeta.

La depredazione della terra è un’operazione del neocolonialismo, del capitalismo, del neoliberismo e delle sue istituzioni come le multinazionali, la banca Mondiale e le sue politiche di regolazione, e tutto si regge sul classismo, il razzismo, le invasioni e il debito estero. Se ogni popolo avesse diritto ad autodeterminarsi nei limiti dell’appartenenza alla pachamama e non al contrario- che la terra gli appartenga- non ci sarebbero depredazione, invasioni né proprietà sulla terra, il territorio, le persone e gli altri esseri. La comunità ha diritto all’autodeterminazione nei limiti dell’autonomia di ognuna dei suoi membri ed ogni donna ha diritto ad autodeterminarsi in libertà e volontà assumendo l’essere comunitario e la reciprocità con esso. La donna non è obbligata a partorire, né le si può impedire di partorire. Il controllo della sua fecondità e della sua sessualità riguarda solo lei. Il processo avviene dentro il suo corpo. Sono la sua salute, il suo corpo, i suoi desideri quelli che risentono di parti, aborti, maternità, relazioni sessuali e matrimonio. Contravvenire questa realtà significa danno e violenza di genere.

Cambiamento climatico e responsabilità sociale

Il cambiamento climatico non è un processo naturale della pachamama, né di di autoregolazione né di autodeterminazione-pretesti dell’umanità che non la considera un entità con vita e diritti. Il cambiamento climatico è la conseguenza dell’attività umana, degli eccessi umani concepiti nel segno di di un modello di sviluppo predatore che si sostiene con il consumo di combustibili fossili e con la deforestazione e lo stupro della natura per ampliare le città di cemento. Un sistema capitalista e patriarcale dove tutto è merce, tutto può essere proprietà privata e avere un prezzo, e ogni conseguenza dell’attività umana può essere riparata o modificata con la scienza e la tecnologia. E’ conseguenza di un sistema che si sente creatore come punta massima del suo potere e che in realtà ha minato le condizioni minime per perpetuare la vita in un universo armonico, per noi la Pachamama.

Gli effetti del cambiamento climatico sono diversi per le donne ed hanno maggiore intensità, a partire dal loro ruolo socialmente assegnato, dove la produzione, l’alimentazione, la cura della famiglia sono centrali; questo le mette a confronto con maggiore intensità con i cambiamenti del clima. Nelle aree rurali il lavoro agricolo e la pastorizia si complicano, si devono percorrere distanze maggiori per trovare foraggio, si deve lavorare di più la terra per restituirle la sua produttività, si devono fare continui calcoli per seminare,a  seconda se si avvicinano piogge o gelate, in un clima incerto, tutto a partire dai propri saperi quotidiani. Anche nelle città l’energia delle donne è colpita, la cura della salute dei figli richiede più tempo e conoscenze, l’approvvigionamento di alimenti (…) richiede più tempo, più lavoro e aggiornamento permanente delle conoscenze per confrontarsi con la nuova realtà.

Consideriamo patriarcale questa assegnazione non egualitaria di ruoli e compiti per sostenere la società, ed è da questa stessa logica che oggi “il mondo” pensa di affrontare il cambiamento climatico.

Evidentemente alcuni paesi, quelli che si autodenominano sviluppati, hanno depredato, contaminato e violentato la pachamama più di noi. Il 75% delle emissioni di gas da effetto serra che causano i cambiamenti climatici sono prodotti da questi paesi, dalle loro industrie, èlites e corporazioni; allora nasce il concetto di Debito Ambientale, di nuovo una visione capitalista che crede che la vita strappata e distrutta dalle attività di questi paesi possa essere ripagata con denaro, cioè cercano di darle un prezzo.

Ma chi riceverà denaro in cambio del danno causato al pianeta? Secondo una logica abbastanza sempliciona i cattivi del nord pagheranno ai buoni del sud per risarcire il loro danno, per continuare a causarlo con meno critiche e maggiore legittimità, dato che pagano per questo. I popoli del sud devono utilizzare questo denaro per conservare la natura e per inventare una nuova forma di vita che danneggi meno la pachamama. Per la Banca Interamericana dello Sviluppo, la banca Mondiale ed altri organismi specializzati a “cooperare” o meglio a imporre “soluzioni” a ogni tipo di problematiche, economiche, di diritto, di genere e oggi ambientali, sono le donne ad essere chiamate ad essere protagoniste di questo impegno, cioè il denaro di un possibile Fondo Globale sarà destinato a trasferimenti di tecnologia, in special modo alle donne, per l’adattamento e il mitigamento dei cambiamenti climatici, che sono una realtà e vanno affrontati.

Di nuovo la visione patriarcale, che intende l’uomo come cultura e la donna come natura, si impone per assegnarci la responsabilità di “riparare il danno che hanno causato al pianeta”, una in più delle nostre multiple responsabilità di duro lavoro e minimo riconoscimento. Se le nostre visioni e conoscenze non sono state assunte nell’analisi della problematica ambientale, fatta da stati ed organismi “specializzati”, noi non saremo “esecutrici delle soluzioni”.

Come femminismo comunitario chiediamo che tutte e tutti quelli che hanno contribuito al riscaldamento globale, alla contaminazione e al cambiamento climatico si assumano le proprie responsabilità nella misura che gli corrisponde, alcuni e alcune più che altri, sicuramente.

Come femminismo comunitario ci rifiutiamo di accettare il fatto che siano le donne che devono essere “capacitate” con tecnologie dei “paesi sviluppati” per guarire la pachamama. Non ci assumeremo da sole una responsabilità che è collettiva e sociale. No. Crediamo che pagare per la violenza esercitata sulla pachamama non sia un’alternativa, e non lo sia neanche sobbarcare la responsabilità alle donne; crediamo che si debba partire da un lavoro collettivo nel quale tutte e tutti, le comunità, i paesi e gli stati riconoscano, assumano e rispettino la pachamama come un tutto che ha vita e che genera vita. Un tutto capace di autoregolarsi e rigenerarsi se rispettiamo la sua autodeterminazione. Un tutto del quale facciamo parte e che ci offre rifugio, essendo noi soltanto aiutanti circostanziali che si alimentano e si nutrono di lei, rispettandola. Non la spezzettiamo né esigiamo diritti di proprietà. La tecnologia e il denaro devono essere al servizio di esperienze nate da questa concezione di fronteggiare il cambiamento climatico.

Da questo sguardo femminista comunitario, ripetiamo che non vogliamo denaro in cambio del danno causato alla pachamama e alle donne. Accettare denaro è come una bomba a tempo, significa che continueranno a sfruttare e a pagare per lo sfruttamento. Vogliamo la restituzione dei diritti. Non si può più risarcire il danno causato, ma si possono restituire i diritti della pachamama e per questo smantellare il patriarcato con i suoi stati, i suoi eserciti, le sue multinazionali, la sua logica gerarchica e tutta la violenza che questo significa per le donne e la pachamama. Non accetteremo neanche che le donne vengano responsabilizzate della depredazione, quello che abbiamo davanti è un compito comunitario. Ossia di tutte e di tutti.

http://mujerescreandocomunidad.blogspot.com/

chi vuole la morte di Joy?

da noinonsiamocomplici

Chi vuole la morte di Joy?

Mesi e mesi di vita rubata tra Cie e carcere dopo anni di vita rubata dai suoi sfruttatori. Quello di Joy non è un tentato suicidio, ma un tentato omicidio, e sappiamo bene chi vuole la sua morte: chi sta facendo di tutto per non farla uscire dal Cie, chi da settimane cerca di piegarla e distruggerla psicologicamente, chi cerca di isolarla impedendo i colloqui con lei e negandole la linfa vitale delle relazioni. Tutti/e costoro – e i loro complici – sono responsabili del gesto disperato di Joy che oggi i suoi avvocati hanno voluto denunciare con un comunicato stampa mandato alle agenzie. Chiediamo a chi intende riprendere il comunicato di omettere, come abbiamo fatto noi, il suo cognome.

Immigrazione/ Denunciò stupro al Cie: nigeriana tenta suicidio Il 17 aprile Joy (***) ha ingerito sapone al Cie di Modena (da Apcom) Joy (***), la 28enne nigeriana che ha denunciato un tentativo di violenza sessuale da parte di un ispettore di polizia nel Cie di Milano l’estate scorsa, ha tentato il suicidio all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Modena dove è trattenuta da alcuni mesi. A quanto risulta ad Apcom, il 17 aprile scorso, la donna ha ingerito un intero flacone di sapone ed è stata ricoverata in ospedale dove le è stata praticata una lavanda gatrica. Sentito da Apcom, l’avvocato Eugenio Losco, che insieme con il collega Massimiliano D’Alessio difende la donna, conferma l’episodio: “Se l’è cavata, ma sono molto preoccupato perché, dopo questo tentativo, Joy continua a manifestare propositi suicidi e non vorrei contare il secondo morto nella vicenda seguita alle proteste nel Cie di Milano”. L’avvocato si riferisce al suicidio, nel gennaio scorso, a San Vittore di Mohamed El Aboubj, in carcere dopo la condanna in primo grado nel processo con rito direttissimo per la “rivolta” in cui fu coinvolta anche Joy. “Joy è nei Cie da quasi un anno in attesa di espulsione ed è fisicamente e psicologicamente molto provata, sia per la detenzione che per il dilatarsi dei tempi di inoltro della denuncia che ha fatto contro i suoi sfruttatori e che le farebbe ottenere un permesso di soggiorno per protezione sociale” continua il legale, sottolineando che la situazione per Joy, in Italia dal 2002 per fare la parrucchiera e poi diventata prostituta, si è “ulteriormente aggravata dopo che il 12 aprile scorso, giorno in cui era prevista la sua liberazione, le è stato comunicato che sarebbe dovuta rimanere al Cie per altri due mesi”. Per quanto riguarda la vicenda della presunta violenza sessuale (l’ispettore accusato ha sporto querela contro la donna), l’avvocato fa sapere che l’8 giugno prossimo il Gip Guido Salvini ha fissato l’incidente probatorio per l’audizione della donna nigeriana.