è morta Francesca Rolla

Si è spenta ieri all’età di 95 anni Francesca Rolla,staffetta partigiana della Brigata Garibaldi “Gino Menconi” di Carrara, l’ultima superstite delle donne della Rivolta di Piazza delle Erbe del 7 luglio del 1944, quando le donne ‘carrarine’  dissero  NO all’ordine di evacuazione della città da parte dei tedeschi.

Della città di Carrara è nota la tradizione laica e anticlericale che coinvolgeva uomini e donne che “non contraevano regolare matrimonio, ma convivevano…Non battezzavano né cresimavano i figli, avevano orrore per le istituzioni, laiche e religiose. Gli uomini erano spesso esuli e incarcerati, perchè perseguitati da ogni governo, e quindi le loro compagne si trovavano a crescere da sole i figlioli”. Le donne della provincia di Carrara sono per lo più le madri, le mogli, le sorelle, le fidanzate dei cavatori, da sempre relegate nel lavoro domestico e familiare. Ma già nel primo dopoguerra le cicliche crisi della produzione e del commercio del marmo e l’aumento del costo della vita avevano incrinato l’isolamento femminile nelle case.

Furono le donne, con i loro viaggi a piedi a Parma,  a garantire la sopravvivenza a una popolazione di 120.000 persone e a permettere ai partigiani di resistere nel tremendo inverno del ’44. In queste zone i Gruppi di Difesa della Donna arrivarono a contare 3330 aderenti. E le donne apuane pagarono un prezzo altissimo per la loro solidarietà ai partigiani, la risposta furono grosso rastrellamenti e le terribili stragi della popolazione civile.

Il 7 luglio del 1944 il comandante della piazza, tenente Tobbens, fece affiggere un bando di sfollamento in cui si ingiungeva alla popolazione di Carrara di raccogliersi per il giorno 9 al Parco delle Rimembranze per essere avviata a nuova destinazione. In un momento in cui si intensificavano le azioni di guerriglia e di sabotaggio si voleva spezzare l’unità tra partigiani e popolazione.

Di fronte a questa opposizione la risposta delle donne di Carrara è un NO dichiarato pubblicamente e collettivamente nelle strade. Un no che ottiene il ritiro del bando e che impedisce lo sfollamento della città.

“Quando il comando tedesco ordinò di abbandonare le nostre case, per trasferirci nel paese di Sala Baganza, decidemmo di opporci pacificamente, ma con tanta decisione radunandoci in piazza delle Erbe. Buttammo all’aria i banchi di verdura e facemmo chiudere i negozi. Quando ci trovammo davanti i militari tedeschi, noi che eravamo in prima fila, capimmo che se avessimo mostrato la nostra paura tutto sarebbe stato inutile e le donne che erano dietro sarebbero fuggite. Allora ci siamo fatte coraggio ed a mani nude ci siamo avventate come belve per impaurire i soldati. Le donne acconsentirono ad abbandonare il presidio solo dopo che lo stesso Comando revocò la disposizione. Fu così che le donne carraresi vinsero la loro battaglia.”


24 marzo 1976

Da mia cognata, argentina, oggi ricevo questa mail:

“Oggi si commemora un’altro anno da quando il 24 marzo 1976 la dittatura nazi-fascista in Argentina usurpò il potere, censurò l’informazione, distrusse il paese e torturò, massacrò 30000 innocenti oggi conosciuti al mondo come “Desaparecidos” .”

Da allora le madri dei desaparecidos, le Madres de la Plaza de Mayo, non hanno mai smesso di combattere per avere giustizia, con tenacia e fermezza. Per onorar loro e i loro figli in questo giorno qui di seguito la storia di una di loro. E un forte abbraccio a Cora.

IL RACCONTO DI HEBE

“Sono figlia di un cappellaio e sono nata in una casa di legno, sulla riva di un fiume, dove ancora vive mia madre. Mi sono sposata molto giovane, mio marito era meccanico, io tessitrice; abbiamo avuto tre figli, due maschi e una femminuccia nata quindici anni dopo. La nostra vita era semplice ma anche molto felice. Io e mio marito avevamo frequentato poco la scuola,, al contrario dei nostri figli, e non li capivamo quando ci parlavano di politica. Io li aiutavo quando mi chiedevano di ospitare qualche compagno e di non dirlo a nessuno, ma lo facevo solo perché ero una mamma molto protettiva.

Sequestrarono mio figlio Jorge l’otto febbraio 1977. Il sei dicembre dello stesso anno toccò a Raùl. Il venticinque maggio del 1978 scomparve Marìa Elena, la moglie di Jorge; sua sorella Marta era già sparita da un pezzo.

Entrai a far parte delle Madri dopo la desaparicìon del primo figlio. Da allora la mia vita è cambiata, io stessa sono diventata un’altra persona. Tutto quello che ho imparato, l’ho imparato lottando in piazza, insieme alle altre madri. Abbiamo condiviso la nostra maternità e io adesso mi sento madre di tutti e trentamila i desaparecidos. Ho capito le ragioni dei miei figli ed oggi sono fiera di essere la madre di due rivoluzionari perché io stessa sono una rivoluzionaria.

Quando hanno portato via i miei figli avevo solo quarantotto anni e mi sono sentita vecchia; oggi ne ho sessantotto ma mi sento vent’anni più giovane perché ho imparato che l’unica lotta che si perde è quella che si abbandona, e perché ho imparato a non patteggiare, a non arrendermi, a non tacere. E tutto questo me lo hanno insegnato i miei figli.

Io non li ricordo né torturati né uccisi: li ricordo vivi! Ogni volta che mi metto il fazzoletto sento il loro abbraccio affettuoso. In Plaza de Mayo, nella nostra piazza, ogni giovedì si riproduce il solo e vero miracolo della resurrezione: noi incontriamo i nostri figli.

Noi non vogliamo le loro ossa. I nostri figli sono desaparecidos per sempre perché la desapariciòn forzata è un crimine contro l’umanità che non va mai in prescrizione e noi vogliamo che gli assassini paghino per quello che hanno fatto.

Noi non vogliamo tombe su cui piangere, perché non c’è tomba che possa rinchiudere un rivoluzionario. I nostri figli non sono cadaveri: sono sogni, utopia, speranza…Sono quello che furono, che pensarono, che cantarono, che scrissero, che soffrirono. Non si può seppellire tutto questo.

Noi non vogliamo rivolgerci ai tribunali di questa democrazia per riavere i nipoti rapiti. Furono considerati dai militari bottino di guerra e come tale andava ripreso, un tempo…Ora sono diventati uomini e donne e, nel caso scoprano la loro vera identità, sta a loro decidere cosa fare della loro vita.

Noi non vogliamo soldi per la vita dei desaparecidos perché la vita non ha prezzo. I miei figli mi hanno insegnato che la vita vale vita. Solamente vita. E non si può riparare con denaro quello che deve essere riparato con Giustizia.

E in Argentina non c’è giustizia, c’è solo impunità, violenza perversa, corruzione. Menem blatera di miracolo economico ma ogni venti minuti un bambino muore di fame, ogni giorno trentasei uomini muoiono per mancanza di assistenza sanitaria e le malattie della miseria si diffondono sempre di più.

La verità è che stanno costruendo una società malata dove la gente accetta una manciata di pesos per i propri morti e gli assassini non vanno in galera. È concepibile accettare soldi dalla stessa mano che ha firmato l’indulto per i criminali? In questo paese il capitalismo prima ti ammazza, poi ti risarcisce. Ma che cosa se ne farà poi la gente di quel denaro? Tutto quello che comprerà puzzerà di morte. So che le mie sono parole dure ma accettare il risarcimento significa prostituirsi perché così si tradiscono i nostri figli e gli ideali per cui hanno dato la vita. Così si perde il senso della lotta collettiva perché il denaro serve solo a farti diventare individualista.

Io ho iniziato a lottare per i miei figli ma oggi lotto per i desaparecidos di tutto il mondo, per i perseguitati, per chi occupa le terre, per gli operai e gli studenti. Io non voglio passare la vita a raccontare come li ammazzarono perché loro non mi hanno insegnato questo. Jorge e Raùl amavano la vita, il comunismo, l’utopia del hombre nuevo: solidale, comunitario, collettivo.

Noi non vogliamo le liste dei morti, vogliamo le liste degli assassini. Noi non dimentichiamo, né perdoniamo e non ci interessa coltivare la cultura della morte. Accettare la morte dei nostri figli significa accettare l’impunità dei responsabili dei crimini della dittatura. Non solo. Significa anche accettare come è stata riscritta la storia della dittatura dagli scrivani della democrazia, i quali hanno riproposto quella che noi chiamiamo la dottrina dei due demoni. Il primo è la guerriglia di sinistra che porta con sé il peccato originale di aver imboccato la via della violenza e di aver provocato l’intervento del secondo demoni: le forze armate. In questo modo, colpevolizzando tutti, mettendo sullo stesso piano vittime e assassini, si assolvono questi ultimi. È un’enorme menzogna: la scomparsa forzata di molti fu un progetto ben preciso di annientamento dell’opposizione politica….

…Noi non trattiamo con nessuno. La nostra linea è chiara. Ci hanno chiamato in tutti i modi: pazze, terroriste, comuniste. Ci odiano perché abbiamo condiviso la nostra maternità, perché viviamo in modo comunitario, perché non siamo le classiche vecchiette piegate dal dolore e dalle disillusioni. E ci odiano soprattutto perché non siamo come le altre: siamo irregolari e chiediamo alla gente di disubbidire perché senza giustizia non può esserci democrazia……

……Oggi i politici, i militari e i preti predicano la riconciliazione. Parlano di pace, amore e libertà comodamente sparapanzati tra il lusso e l’opulenza. Le loro sono solo parole vuote. Nessuno di loro parlava di pace quando uccidevano i nostri figli. In realtà quella che offrono è la pace silenziosa dei sepolcri.

Le Madri della Plaza de Mayo non accettano di vivere in questo teatrino della democrazia, dove si fa credere al popolo che il suo destino si decide alle elezioni. Le Madri non votano, nemmeno il “meno peggio”. Sappiamo che la nostra voce dà noia ai potenti perché è la voce dei nostri figli….

….Mio padre era cappellaio, mia madre casalinga, mio marito meccanico e io tessitrice. La nostra era una vita semplice ma molto felice perché potevamo garantire ai nostri figli una vita dignitosa e un’istruzione adeguata. Ora mi è rimasta solo la figlia; i due maschi, Jorge e Raùl, sono con me e mi riscaldano con il loro amore quando indosso il fazzoletto. Ogni notte mi addormento cullata dai bellissimi ricordi di mamma e ogni mattina mi sveglio piena di odio per gli assassini che me li hanno portati via.”

(da “Le irregolari – Buenos Aires horror tour”
di Massimo Carlotto
ed e/o, 1998)

Ciudad Juarez

Ciudad Juárez è una città di frontiera che conta circa un milione e mezzo di abitanti ed è

situata in una regione desertica dello stato di Chihuahua al confine con gli Stati Uniti, a

quattro chilometri da El Paso, Texas.

Ciudad Juárez attira le popolazioni povere degli stati dell’interno che arrivano a centinaia ogni mese alla ricercadi un lavoro o per tentare di attraversare il confine.                                                                                                                                     Nel 2003, c’erano 269 maquiladoras ( Una maquila, in Messico, è un impresa, solitamente a capitale interamente straniero, che contratta manodopera locale e non è soggetta pagamento delle imposte) e 197000 lavoratori e lavoratrici. Secondo le statistiche ufficiali nello stato di Chihuahua, le donne occupano il 48,3% dei posti di lavoro disponibili e hanno in media tra i 20 e i 22 anni ma si trovano anche delle minorenni.


I salari nelle maquiladoras non superano in media i 4$ US al giorno per dieci ore di lavoro. Nel 2003, il 18% della popolazione viveva nella povertà più estrema, il 22% non aveva un servizio d’acquedotto e il 14% viveva senza acqua potabile. I nuovi arrivati si ammassano nelle bidonvilles costruite nella periferia della città, istallandosi su terreni incolti che appartengono spesso a grandi proprietari terrieri.

A Juàrez sono presenti più di 500 bande di strada che si dedicano ad attività criminali di ogni genere e spesso impongono ai nuovi membri lo stupro di una giovane ragazza per essere ammessi nel gruppo.

In questa città, in cui il predominio maschile caratterizza ogni livello dell’organizzazione sociale, la violenza verso le donne si esprime tanto nell’ambiente domestico quanto in quello lavorativo.

Nel solo 2001, sono state presentate 4 540 denunce per stupro (12 al giorno). Ugualmente, le molestie sessuali e le minacce di licenziamento da parte dei supervisori e dei proprietari delle maquiladoras alle donne che rifiutano le loro avances sono un fenomeno corrente.

A Ciudad Juárez, su dieci persone assassinate quattro sono donne.

E’ dal 1994 che inizia una lunga lista di giovani donne stuprate ed uccise, scomparse, i corpi ritrovati nel  deserto, o meglio i resti, i pochi testimoni fatti fuori, gli avvocati difensori accidentalmente investiti in incidenti stradali. E la polizia che le dava per scomparse, per poco di buono che se l’erano cercata.

Da allora questa strage non si è più fermata, il termine giusto per indicarla è FEMMINICIDIO.

E in un posto come Ciudad Juarez, in cui la vita non è un bene prezioso ma una mercanzia che può essere facilmente rimpiazzata da altra manodopera economica, la vita di una donna povera, che non conosce i suoi diritti, non vale nulla.

Diverse testimonianze indicano che gli assassini sarebbero stati protetti dai poliziotti di Chihuahua e avrebbero beneficiato di appoggi negli ambienti del potere legati al traffico di droga. Alla fine del 1999, alcuni cadaveri di donne e bambine furono ritrovati vicino ai ranch di proprietà di trafficanti di cocaina. Tale coincidenza sembrava stabilire un legame tra gli omicidi e la mafia del narcotraffico, a sua volta legata alla polizia e ai militari. Ma le autorità rifiutarono di seguire questa pista.

La strategia dei diversi governatori per «risolvere» gli assassinii seriali di donne a Ciudad Juárez ha portato a una sequela di manipolazioni e dissimulazioni, che in sostanza incolpavano degli innocenti. Un’altra strategia utilizzata è stata l’eliminazione di chi prendeva le difese dei falsi colpevoli. Diversi avvocati e talvolta i loro familiari, sono stati assassinati o hanno subito attentati, numerosi giudici, procuratori, giornalisti hanno ricevuto minacce di morte per costringerli ad abbandonare le inchieste sugli omicidi delle donne.

Molte testimonianze dimostrano che alcuni omicidi di donne sono commessi durante orge sessuali da uno o più gruppi di individui, fra cui alcuni assassini protetti da funzionari di diversi corpi di polizia, in combutta con personaggi altolocati, a capo di fortune acquisite per lo più illegalmente, grazie alla droga e al contrabbando, e la cui rete d’influenza si estende come una piovra da un capo all’altro del paese. Per questo motivo questi crimini efferati godono della più completa impunità.

Le donne si sono organizzate per difendersi e per difendere le proprie figlie.

Nuestras Hijas de Regreso a Casa è un’organizzazione costituita da familiari ed amici vicini alle giovani assassinate e desaparecidas. La sua nascita risale al febbraio 2001.

Noi famiglie  che facciamo parte di questo movimento abbiamo trasformato in forza il nostro dolore, avendo dovuto affrontare, dopo il brutale assassinio delle nostre figlie, l’inettitudine, l’intransigenza, l’occultamento, la corruzione e il più indifferente atteggiamento di funzionari e autorità.

E’ cosi che abbiamo dato inizio alla nostra organizzazione: trasformando questa indignazione, questo dolore, questo coraggio in una forza che ci ha permesso di sopportare tutto l’apparato burocratico e di poter affrontare i dipendenti corrotti e inefficaci, i funzionari complici e l’impunità del potere politico ed economico.

Chi siamo?

Siamo donne umili che viviamo nei quartieri popolari di Ciudad Juarez e Chihuahua; usiamo il trasporto pubblico; siamo lavoratrici che percepiamo meno del salario minimo; la maggioranza ha fatto solo le elementari.

Siamo madri di giovani desaparecidas; alcune di noi hanno finalmente trovato le loro figlie, violentate, assassinate e buttate da qualche parte, altre continuano a cercarle.

Oggi ci uniamo nella sofferenza di averle perse o nell’ansia di non saperne niente.

Le nostre figlie, le desaparecidas, sono prigioniere da qualche parte, correndo grave pericolo.

Le nostre figlie morte, cercavano di essere felici, avevano sogni, progetti, che furono interrotti dagli assassini.

Abbiamo sofferto tutte lo stesso calvario, la desaparariciòn, il dolore e l’ansia di perdere una figlia, a cui dobbiamo aggiungere il maltrattamento che abbiamo subito dalle autorità investigative.

Quando abbiamo voluto denunciare e organizzarci le autorità ci hanno minacciato. Hanno tentato di comprare il nostro silenzio offrendoci denaro. Le persone che si avvicinano e lottano con noi vengono minacciate. Siamo stanche della persecuzione della polizia investigativa.

Abbiamo deciso di lottare, ci organizziamo per esigere giustizia, vogliamo rompere le barriere, non taceremo.

VOGLIAMO GIUSTIZIA PER LE NOSTRE FIGLIE, PER LE SCOMPARSE, PER LE MORTE, ESIGIAMO GIUSTIZIA.

(“Justicia para nuestras hijas”, organizzazione di madri e familiari.)

L’11 dicembre 2009, la Corte Interamericana dei Diritti Umani, composta da sei magistrati e inserita nel sistema dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), ha condannato lo Stato messicano per avere violato il diritto alla vita, all’integrità fisica e alla libertà persomale dato che non ha indagato adeguatamente ed ha discriminato i diritti di 3 vittime d’omicidio, Esmeralda Herrera, 15 anni all’epoca dell’assassinio, Claudia Gonzalez, di 20, e Berenice Ramos di 17, e dei loro familiari.

La sentenza dell’11 dicembre è inappellabile e riguarda appunto i casi citati di “femminicidio” che risalgono al novembre del 2001 quando insieme alle tre vittime furono ritrovati altri 5 corpi nel terreno conosciuto come “campo algodonero” (campo di cotone). Si può trovare il testo integrale della sentenza alla pagina www.corteidh.or.cr.

qui si trova un video sui femminicidi a Ciudad Juarez e in tutto il confine messicano con gli Stati Uniti, è sottotitolato in italiano

MA QUANTE DONNE NEL MONDO VENGONO UCCISE PER IL PROPRIO SESSO, PERCHE’ NON SONO QUELLO CHE LA SOCIETA’ VORREBBE CHE FOSSERO, PERCHE’ RECLAMANO I PROPRI DIRITTI?

 

la resistenza taciuta

Questa mostra nasce dalla lettura di un libro, “La resistenza taciuta, dodici vite di partigiane piemontesi”, di Bruzzone e Farina.
Il libro, uscito nel 1975 e ripubblicato nel 2004,fu un “cult” del movimento femminista degli anni ’70, che rintracciava nell’esperienza di queste donne un antecedente, una linea di discendenza femminile a cui riallacciarsi e con cui confrontarsi.
Partendo da questo libro siamo andate alla ricerca di altre testimonianze e narrazioni di donne attive in quegli anni, per cercare di dare voce a chi ne ha sempre avuta poca: donne, donne che si oppongono, donne del popolo, operaie e contadine.
Se dobbiamo sceglierci delle madri ci piace che siano donne ribelli.
Ci sembra importante e necessario parlare oggi di resistenza. Infatti qui ci troviamo, ancora a resistere, a combattere contro poteri forti, reali e materiali. Le risposte che vanno cercate sono metodi per destrutturare e distruggere questi poteri, metodi che possono essere diversi tra loro ma devono essere efficaci: in questo senso la contrapposizione violenza-non violenza ci appare essere un falso problema. Si sente dire spesso che utilizzare metodi violenti significa diventare come il potere che si combatte. Le storie, i destini, le parole e il sentimento di queste donne sembrano smentirlo: per loro agire è  stata semplicemente una necessità .
Forse è¨ invece il ricercare potere quello che può rendere simili al potere e far ritornare la ruota al punto di partenza”. E tocca purtroppo ancora ribadire che una cosa è “la violenza del carnefice e un’altra quella di chi si ribella alla carneficina.”
Le donne parteciparono in molti modi alla resistenza, dalle partigiane combattenti alle operaie che organizzavano scioperi nelle fabbriche, dalle staffette alle donne che preparavano calzini e cibo per chi combatteva in montagna, da quelle che nascondevano i renitenti a quelle che facevano azioni di sabotaggio e informazione.
Partecipare alla lotta collettiva significò per queste donne la possibilità  di rompere esplicitamente con i modelli femminili imposti dal regime (ma che riproducevano una realtà di lunga durata) di passare alla rivolta aperta, di essere alla pari con gli uomini nella ricerca di una vita nuova. Godere di autonomia di spostamento e azione rappresentò per loro il raggiungimento di uno spazio di libertà  impensabile poco tempo prima. L’esperienza della resistenza, pur tragica, fece scoprire loro la possibilità  di uscire da quei ruoli e spazi in cui le donne erano chiuse, fu l’occasione per instaurare relazioni nuove tra uomini e donne, tra donne e donne.
Le donne furono certamente spinte all’azione dall’odio per l’ingiustizia e il fascismo, dalla lotta di classe, dalla volontà  di farla finita con l’invasione straniera, ma c’era in più un profondo impulso alla liberazione personale. In quel breve periodo tutto cambiava velocemente e la vita si inventava giorno per giorno. La scelta era una scelta di vita, che comportava un capovolgimento di valori. Si poteva credere che quella libertà  femminile avrebbe segnato la nuova societa’  nata dalla lotta.
E invece no, l’incontro dei generi che pareva possibile durante la guerra di liberazione sembra svanire subito dopo. Nel dopoguerra si assiste a una pesante normalizzazione. Da parte delle forze moderate, ma anche da parte della sinistra, partito comunista compreso. La risposta, unitaria, fu l’invito a sacrificarsi, a tirarsi indietro. In realta’ per tutti, ma ancor piu’ per le donne.
Dopo la liberazione queste donne sembrano essere dimenticate, taciute, vita pubblica e vita privata precipitano nella dimenticanza.
‘Alle staffette, nelle sfilate, mettevano la fascia da infermiera.’

…prossimamente in digitale…