Le donne di Ravensbruck

RAVENSBRUCK

 

Riflessioni sul libro di Lidia Beccara Rolfi, A. Maria Bruzzone- “Le donne di Ravensbruck” Einaudi, 1978

“Ravensbruck, come tutti i campi di stermino, è strutturato in modo non dissimile dalle città, e dalle società, in cui siamo abituati a vivere. La popolazione delle deportate è divisa in classi, che sono tenute lontane le une dalle altre in conformità a questa divisione. Ci sono le “sottoproletarie”, le “proletarie”, le “borghesi”. I sopravvissuti dai lager nazisti trovarono al ritorno in patria una condizione di vita non abbastanza diversa da quella che lasciavano: la corsa feroce al potere e ai beni materiali di tanti che al momento del pericolo erano stati rintanati al sicuro, il rientro graduale nelle loro posizioni privilegiate degli autori delle sciagure che avevano colpito gran parte dell’umanità, ingiustizie e diseguaglianze non scalfite dalla Liberazione, gli ex deportati abbandonati a se stessi.”

I Lager non sono mai scomparsi.
Sono semmai più raffinati ed efficaci. Anche nelle società cosiddette democratiche ne esistono tracce più o meno evidenti,mai accidentali e casuali: gli ospedali psichiatrici, i bretotrofi, i ricoveri per vecchi, i riformatori, le carceri l’esercito, le fabbriche, chi ha tutto e troppi che non hanno nulla. Lo sfruttamento schiavistico di masse sterminate di manodopera e l’annientamento degli improduttivi è il frutto di un disegno razionale tutto interno alla logica capitalistica, l’approdo coerente di un regime sorto per la difesa del privilegio. E oggi: ancora le guerre, i campi profughi, il muro di Tijuana e quello per rinchiudere i palestinesi, le bidonvilles e le periferie delle grandi metropoli, l’Africa, masse di diseredati lasciati a se stessi, accalcati a frugare nella spazzatura, in mezzo a morbi e malattie, immigrati usati come manodopera a basso costo e per costruire un “nemico” che alimenti la paura e faccia vivere tutti nel terrore , i lager- come giustamente li abbiamo chiamati subito- per gli immigrati: legge Turco- Napolitano- (loro, i democratici, li chiamano Centri di Permanenza Temporanea ecc.) Spesso nei discorsi ufficiali e un po’ pomposi sui lager si sente dire: “perché non si ripeta”. Invece non è mai finito: i presupposti del lager sono dappertutto, un pianeta che è come un lager, con privilegi di pochi e grosse masse di persone da utilizzare per fare profitto, di cui a nessuno importa la sorte, la vita, le condizioni perché facilmente sostituibili. Quanti siamo, 6miliardi???? –anche con il pianeta, la terra, la natura succede così, ma da quello non si torna indietro. Cercare nuovi modi di resistenza. La resistenza dentro ai lager ci può forse dare delle indicazioni, perché forse il lager e il suo modo di “ragionare”- niente a che fare con l’irrazionalità, ma un progetto coerente- è quello che più assomiglia alla vita del globo nel momento attuale. Resistenza umana. E resistenza non solo umana, perché forse è venuto il momento anche di non considerare la nostra specie il centro dell’universo, di mettersi un po’ da parte, di non voler più assomigliare agli dei, di fermarsi dal fabbricare e produrre, di non “progredire” più. Resistenza per mantenersi sensibili. Ma resistenza reale, che inceppi i meccanismi. Se tante cose nelle tante storie che ho letto di queste donne che hanno combattuto durante la Resistenza sono legate a un’epoca e se perfino alcune mi sembrano cose che fanno parte anch’esse di un sistema che rifiuto- per esempio questa loro pazzesca etica del lavoro, l’orgoglio di lavorare in una grande fabbrica come la FIAT, sono cose incomprensibili per me che sono cresciuta politicamente all’ombra del rifiuto del lavoro, intendendo come lavoro non l’attività umana, ma il lavoro coatto e alienato, cose comprensibili solo se legate a quel contesto storico (il lavoro per le donne è stato senz’altro portatore di indipendenza e autonomia), ma pericolose oggi. Continue reading

Nous disons révolution

da: immateriali resistenti

Nous disons révolution

 

di BEATRIZ PRECIADO

art3

Pare che i vecchi guru dell’Europa coloniale si stiano ostinando a voler spiegare agli attivisti dei movimenti Occupy, Indignados, handi-trans-froci-lesbiche-intersex e post-porn che non potremo fare la rivoluzione perché non abbiamo nessuna ideologia. Dicono «un’ideologia» esattamente come mia madre diceva «un marito». Bene: non abbiamo bisogno né di ideologie né di mariti. Noi, nuove femministe, non abbiamo bisogno di mariti perché non siamo donne. Così come non abbiamo bisogno d’ideologie perché non siamo un popolo. Né comunismo né liberalismo. Né ritornello catto-musulmano-ebraico. Parliamo un altro linguaggio. Loro dicono rappresentazione. Noi diciamo sperimentazione. Loro dicono identità. Noi diciamo moltitudine. Loro dicono controllare la banlieue. Noi diciamo meticciare la città.
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da Torino a Firenze. Fuori i fascisti dalle città.

Modou Samb, 40 anni, ucciso; Mor Diop, 54 anni, ucciso; Mustafa Dieng, 34 anni, in ospedale; Mor Soughou, 32 anni, in ospedale; Cheikh Mbengue, 42 anni, in ospedale.

Questi i nomi degli uomini colpiti ieri da un fascista assassino a Firenze. E la prima cosa che ho voluto fare è nominarli. Perchè  li si ricordi con il loro nome, perchè non si dica “dei senegalesi”. La prima cosa è il grande dolore per delle persone ammazzate barbaramente.  La rabbia perchè ad ucciderli è stato odio razziale, perchè in questo paese i fascisti se ne possono andare in giro a spargere i loro vaneggiamenti di morte,  la loro ossessione identitaria. Perchè non è mai stato spazzato via, il fascismo, sdoganato come una visione del mondo tra tante (un’amica mi racconta che stamani a Controradio veniva intervistato un fascista, e ieri sera alla televisione Maria Annunziata ha avuto come ospite un aderente a Casa Pound, che ci racconta che loro non c’entrano nulla, che anzi sono un’associazione di volontariato).

Modou Samb e Mor Sab sono stati uccisi da un fascista, non da un pazzo. Da un fascista vicino a Casa Pound. E lui, l’assassino, non lo nomino, perchè mi fa troppo schifo.

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Vi Subversa “un dildo nel buco del culo del music-business”

POISON GIRLS

Gruppo anarco-punk di Brighton (Inghilterra), fondato nel 1976 e guidato da Vi Subversa, una musicista quarantenne madre di due figli, anch’essi musicisti della stessa area anarchica. Secondo una fonte, Vi Subversa (si ignora il suo vero nome) decise di fondare le Poison Girls quando i suoi due ragazzi entrarono a far parte dei Fatal Microbes (i due ragazzi, Pete Fender e Gem Stone, faranno parte, in seguito, dei Rubella Ballet). La donna sarebbe stata spronata da un pensiero del tipo, “Qualunque cosa facciano loro, posso farla anch’io”. La musicista descrisse le Poison Girls come un “dildo nel buco del culo del music-business” (scusate la trivialità: non è bello leggere parolacce come music-business, non succederà più). La formazione originale delle Poison Girls comprendeva, oltre a Vi Subversa (voce), Lance D’Boyle (batteria), Richard Famous (chitarra) e Bernhardt Rebours (basso, sintetizzatore e tastiere). Le Poison Girls, dopo la fondazione, si trasferirono nella Burleigh House, nell’Essex, vicino alla Dial House dei compagni anarchici Crass, la band intorno alla quale ruotava gran parte del movimento punk anarchico che si sviluppò in quel periodo.

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#25novembre: non una di più!

da:Femminismo a Sud


Venerdì 25 novembre saremo in tante a manifestare contro la violenza sulle donne: saremo nelle piazze e saremo anche nel web, come sempre.

Tra le numerose iniziative ci arriva la comunicazione e l’invito a partecipare anche da Pisa, dove le donne dell’Associazione Casa della Donna, storico luogo femminista in città e sede anche del Centro Antiviolenza, organizzano insieme a molte altre realtà cittadine sensibili al tema un presidio contro i femminicidi. L’appuntamento è a Pisa alle ore 17 su Ponte di Mezzo.

Le donne di Pisa comporranno un enorme simbolo femminista con 129 paia di scarpe con un fiore rosso, tante quante il numero delle vittime di violenza maschile in Italia ad oggi dal primo gennaio 2011.

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