L’orso della luna crescente

(Giappone)

orso della luna crescenteC’era una volta una giovane che viveva in un profumato bosco di pini. Il marito era lontano, a combattere una lunga guerra. Quando finalmente fu congedato, tornò a casa, ma si rifiutò di entrarvi perché si era abituato a dormire sulle pietre. Stava giorno e notte per conto suo, nel bosco.

La giovane moglie era tanto eccitata quando le dissero che finalmente il marito sarebbe ritornato a casa, che prese a comprare cibi e a cucinare piatti e piatti e ciotole e ciotole di giuncata di soia, e tre tipi di pesce e tre tipi di alghe, e riso cosparso di pepe rosso, e dei bei gamberi, grossi e color arancio.

Sorridendo timidamente, portò i cibi nel bosco e s’inginocchiò accanto al marito tanto stanco della guerra, e gli offrì le stupende pietanze che aveva preparato. Ma lui saltò in piedi e diede un calcio ai vassoi, sicchè la giuncata si sparse per terra, il pesce volò per aria, le alghe e il riso si sparpagliarono ovunque, e i grossi gamberi arancioni rotolarono lungo il sentiero.

“Lasciami stare!” urlò, e le voltò le spalle. Era tanto in collera che lei ne ebbe quasi paura. Alla fine, disperata, riuscì a raggiungere la caverna della guaritrice che viveva lontano dal villaggio

“Mio marito è tornato gravemente turbato dalla guerra” disse la moglie. “S’infuria continuamente e non mangia nulla. Vuole restare all’aperto, non vuole più vivere con me come un tempo. Puoi darmi una pozione per renderlo di nuovo gentile e affettuoso?”

La guaritrice la rassicurò:”Posso fare questo per te, ma mi occorre uno speciale ingrediente. Purtroppo ho esaurito i peli dell’orso della luna crescente.

Devi dunque arrampicarti su per la montagna, trovare l’orso nero e portarmi un pelo della luna crescente che ha sulla gola. Allora potrò darti quel che ti occorre, e la vita tornerà a essere bella”.

Molte donne si sarebbero scoraggiate, avrebbero ritenuto impossibile quell’impresa. Ma lei no, perché era una donna che amava. “Oh, ti sono così grata!” disse. “E’ così bello sapere che si può fare qualcosa”.

Si preparò dunque al viaggio, e la mattina dopo prese a salire su per la montagna. E intanto cantava “Arigato zaisho”, che è un modo per salutare la montagna e dirle “grazie di lasciarmi salire sul tuo corpo”.

Salì sulle colline dove i massi erano come grosse pagnotte di pane. Raggiunse un altipiano ricoperto da un bosco. Gli alberi avevano lunghi rami drappeggiati e foglie che parevano stelle. “Arigato zaisho” cantava. Era un modo per ringraziare gli alberi che sollevavano le chiome per lasciarla passare. Così riuscì ad attraversare il bosco e riprese a salire. Ora era più faticoso. La montagna aveva fiori spinosi che si impigliavano all’orlo del kimono, e rocce che le sbucciavano le piccole mani. Strani uccelli neri le volavano incontro nel crepuscolo e la spaventarono. Sapeva che erano muen-botoke, spiriti dei morti che non avevano parenti, e per loro intonò preghiere: “Vi sarò parente. Farò in modo che possiate riposare”.

Salì ancora, perché era una donna che amava. Salì finchè vide la neve sulla cima della montagna. I piedi si bagnarono e diventarono freddi, ma lei continuò a salire, perché era una donna che amava. Si scatenò una tempesta, e i fiocchi di neve le entravano negli occhi e nelle orecchie. Accecata, continuava a salire. E quando smise di nevicare la donna cantò: “Arigato zaisho”, per ringraziare i venti che non l’accecavano più.

Si rifugiò in una piccola caverna, così piccola che ci stava dentro a malapena. Aveva del cibo per sé, ma non mangiò; si ricoprì di foglie e dormì. La mattina l’aria era tranquilla e tra la neve si scorgevano persino delle pianticelle verdi. “Ecco” pensò “è arrivato il momento di trovare l’orso della luna crescente”.

Cercò tutto il giorno e all’imbrunire trovò delle grosse cataste di legna e non ebbe più bisogno di cercare, perché un gigantesco orso nero camminava pesantemente sulla neve, lasciandosi dietro profonde orme. L’orso della luna crescente ringhiò ferocemente ed entrò nella sua tana. La donna frugò nel suo fagotto e mise il cibo che aveva portato in una ciotola. L’appoggiò sulla soglia della tana e tornò a nascondersi nel suo rifugio. L’orso sentì l’odore del cibo e uscì barcollando dalla sua tana, ringhiando così forte da far rotolare delle pietre. L’orso girò un po’ di volte attorno al cibo, sentì il vento e inghiottì il cibo in un sol boccone. Poi sparì nella sua tana.

La sera dopo la donna fece la stessa cosa, ma dopo aver depositato la ciotola non tornò nel suo rifugio ma si fermò a mezza strada. L’orso sentì l’odore del cibo, uscì dalla tana, ringhiò da scrollare le stelle dei cieli, girò attorno, molto cautamente sentì l’aria, ma alla fine inghiottì il cibo e tornò nella sua tana. La cosa continuò per parecchie notti finchè in una scura notte blu la donna sentì di avere abbastanza coraggio da aspettare vicino alla tana dell’orso.

Mise il cibo nella ciotola sulla soglia della tana e lì rimase in piedi, in attesa. Quando l’orso sentì l’odore del cibo e uscì, vide anche un piccolo paio di piedi umani. L’orso alzò il capo e ringhiò tanto forte da farle rumoreggiare le ossa. La donna tremava, ma restò al suo posto. L’orso si ripiegò sulle zampe posteriori, spalancò le fauci e ringhiò tanto che la donna potè vedere il palato rosso e marrone della bocca. Ma non si diede alla fuga. L’orso ringhiò più forte e allungò le zampe come per afferrarla, con i dieci artigli che pendevano come dieci lunghi coltelli sulla sua testa. La donna tremava come una foglia al vento, ma rimase ferma dov’era.

“Per favore caro orso” implorò “per favore, ho fatto tutta questa strada perché ho bisogno di una cura per mio marito”. L’orso lasciò ricadere a terra le zampe sollevando una nuvola di neve, e osservò la faccia terrorizzata della donna. Per un attimo alla donna parve di poter vedere intere catene montuose, vallate, fiumi e villaggi riflessi nei vecchi occhi dell’orso. Provò una gran pace, e smise di tremare.

“Ti prego caro orso, ti ho nutrito per tante notti, potrei avere un pelo della luna crescente che hai sulla gola?”. L’orso rifletteva e pensava: questa piccola donna sarebbe un buon cibo. Ma improvvisamente provò per lei tanta pietà. “E’ vero” disse l’orso della luna crescente, “sei stata buona con me. Puoi prendere un mio pelo. Ma fai in fretta e tornatene a casa”.

L’orso sollevò il muso perché potesse vedere la bianca luna crescente sulla gola, e la donna vide anche il suo cuore pulsare forte. La donna poggiò una mano sul collo dell’orso, e con l’altra prese un lucente pelo bianco, e in fretta lo strappò. L’orso indietreggiò e urlo come fosse stato ferito. Poi il dolore si trasformò in stizza.

“Oh grazie mille orso della luna crescente.” La donna si piegò in mille inchini, ma l’orso grugnì e fece un passo avanti. Urlò parole che lei non poteva comprendere e che pure aveva sempre saputo. La donna si volse e volò giù dalla montagna. Corse sotto gli alberi con le foglie a stella. E sempre andava intonando: “Arigato zaisho”, per ringraziare gli alberi che sollevando i rami la lasciavano passare. Inciampò sui massi che parevano grosse pagnotte di pane urlando: “Arigati zaisho”, per ringraziare la montagna che l’aveva fatta salire sul suo corpo.

Sebbene avesse gli abiti ridotti a brandelli, i capelli spettinati e la faccia sporca, corse giù per gli scalini di pietra che portavano al villaggio e raggiunse la capanna dove la guaritrice sedeva a curare il fuoco. “Guarda, l’ho trovato, il pelo dell’orso della luna crescente!” urlava la giovane donna.

“Bene” disse la guaritrice con un sorriso. Prese il pelo bianco e lo guardò alla luce. “Sì, è un autentico pelo dell’orso della luna crescente”. Poi d’improvviso si volse e gettò il pelo nel fuoco, dove scoppiettò e bruciò in una bella fiamma arancione.

“No” urlò la donna “cosa hai fatto?”

“Calmati, va bene così, è tutto a posto”, disse la guaritrice. “Ti ricordi tutto quello che hai fatto per scalare la montagna? Ricordi tutto quello che hai fatto per conquistare la fiducia dell’orso? Ricordi quello che hai visto, quello che hai udito?”.

“Sì” rispose la donna, “lo ricordo benissimo”.

La vecchia guaritrice le sorrise dolcemente e disse: “Ora, figlia mia, torna a casa con tutte queste nuove conoscenze, e comportati nello stesso modo con tuo marito”.

orso della luna crescente

La collera come maes­tra: Il con­tenuto di questa sto­ria ci mostra che la pazienza soc­corre la collera, ma il mes­sag­gio indi­retto riguarda quanto una donna deve fare per riportare l’ordine nella psiche e rin­fran­care l’io in collera. Per affrontare e guarire la collera è nec­es­sario: ricer­care una forza salutare, sag­gia e qui­eta (la guar­itrice); accettare la sfida di pen­e­trare nel ter­ri­to­rio psichico (la sca­lata della mon­tagna), riconoscere le illu­sioni (super­are i massi, cor­rere sotto gli alberi), dare riposo ad antichi pen­sieri e sen­ti­menti osses­sivi (gli inqui­eti spir­iti), sol­lecitare il grande com­pas­sionev­ole Io (nutrire l’orso), com­pren­dere il lato ringhi­ante della psiche com­pas­sionev­ole (riconoscere che l’orso non è docile). La cura sta nel processo di ricerca e prat­ica e non in un’unica idea (dis­truzione del pelo).

La psiche ha un lato tor­tu­rato e molto in collera rap­p­re­sen­tato dal mar­ito, lo spir­ito amante della psiche, la moglie, assume il com­pito di trovare una cura per la collera.

La pazienza è un’ottima cosa per la collera antica come per la nuova, e ottima cosa è la ricerca di una cura.

Il lavoro psichico va fatto sia nel mondo inte­ri­ore che in quello este­ri­ore. Pos­si­amo usare la luce della collera in un modo pos­i­tivo, per vedere dove di solito non pos­si­amo vedere. Tutte le emozioni, anche la collera, por­tano sapienza, pen­e­trazione, illu­mi­nazione. Ma la collera non trasfor­mata può diventare un mantra su quanto siamo stati oppressi, fer­iti e tor­tu­rati. La collera cor­rode la nos­tra fede che possa accadere qual­cosa di buono. Dietro alla perdita della sper­anza di solito c’è la collera, dietro alla collera il dolore, dietro al dolore una qualche tor­tura.

 

La sca­lata della mon­tagna: invece di cer­care di “com­portarci bene”, di non sen­tire la nos­tra collera, è bene invi­tarla a sedere accanto a noi. All’inizio la collera si com­porta come il mar­ito della sto­ria: non vuol man­giare, non vuol par­lare, vuol stare per conto suo. In questo momento critico chi­ami­amo la guar­itrice, la nos­tra parte più sag­gia, le nos­tre risorse migliori. La guar­itrice inte­ri­ore mantiene la calma per immag­inare come pro­cedere nel migliore dei modi, osser­vando con calma la situ­azione che provoca la nos­tra collera, proi­et­tan­doci nel futuro per farci vedere cosa ci ren­derebbe orgogliose del nos­tro com­por­ta­mento pas­sato, con il senno di poi.

Noi vogliamo usare la collera come forza cre­ativa. Per cam­biare, svilup­pare, pro­teggere. Se c’è calma può esserci apprendi­mento, se divampa un ter­ri­bile fuoco esso lascerà solo cenere.

E’ bene riti­rarsi sulla mon­tagna quando non sap­pi­amo che altro fare. Nelle fiabe la mon­tagna è il sim­bolo che descrive i liv­elli di padro­nanza da rag­giun­gere prima di salire al liv­ello suc­ces­sivo. Sca­lando la mon­tagna sconosci­uta con­quis­ti­amo una vera conoscenza della psiche istin­tiva. Nella sto­ria la mon­tagna con­sente alla donna di salire e gli alberi soll­e­vano i rami per las­cia­rla pas­sare. E’ il sim­bolo del diradarsi delle illu­sioni. Soll­e­vare i veli dell’illusione rende tanto forti da sop­portare la vita, con­sente di imparare a non pren­dere troppo sul serio la prima impres­sione, ma a guardare oltre. La donna della sto­ria com­pie il suo viag­gio per portare luce nell’oscurità della collera. Per farlo deve com­pren­dere i vari strati di realtà sulla mon­tagna. Abbi­amo tante illu­sioni nella vita!

Gli uccelli: la rab­bia è il risul­tato di fan­tasmi che non riposano in pace per­ché nes­suno se n’è occu­pato.

 

L’orso — spir­ito: per gli antichi l’orso rap­p­re­senta la res­ur­rezione (il letargo). L’orso può essere inteso come la capac­ità di rego­lare la pro­pria vita, specie quella del sen­ti­mento. L’orso si muove sec­ondo i cicli, va in letargo e rin­nova l’energia per il ciclo suc­ces­sivo. Si può con­ser­vare un con­trollo della pres­sione della vita emo­tiva, si può essere insieme fieri e gen­erosi, ret­i­centi e preziosi. Si può pro­teggere il ter­ri­to­rio, seg­nare chiara­mente i con­fini, scuotere il cielo se nec­es­sario, ed essere comunque disponi­bili, acces­si­bili, capaci di gener­are.

 

Il fuoco trasfor­ma­tore e l’azione giusta: nello Zen, il momento in cui la guar­itrice getta il pelo nel fuoco è il momento della vera illu­mi­nazione. Questa avviene quando la proiezione della cura mag­ica si dis­solve. Quello che serve è la PRATICA: occorre tornare a casa e com­piere i vari passi, uno dopo l’altro, tutte le volte che è nec­es­sario, il più a lungo pos­si­bile o per sem­pre. Quando insorge la collera dob­bi­amo ten­erla in attesa, lib­er­are le illu­sioni, salire sulla mon­tagna e par­larle.

Tor­nata la donna dalla mon­tagna, la vita torna ad essere mon­dana, lei possiede il dono dell’esperienza sulla mon­tagna, ha la conoscenza. L’energia della collera può essere usata per altro. Pure, un giorno, la collera spun­terà di nuovo (per uno sguardo, una parola, un tono di voce, la sen­sazione di essere trat­tata senza stima, o manipo­lata). Le par­ti­celle residue della collera orig­i­naria provo­cano una sof­ferenza intensa quasi come la ferita orig­i­naria. Allora ci si irrigidisce e si aumenta così la sof­ferenza. E’ d’obbligo allora fer­marsi, riti­rarsi e scegliere la soli­tu­dine.

 

I des­can­sos: c’è un tempo dell’esistenza in cui una donna prende una deci­sione impor­tante per la sua vita futura: essere amara o non esserlo. I des­can­sos sono pic­coli croci bianche lungo le vie, sono luoghi di sosta. Sono lì in memo­ria della morte di qual­cuno. Le donne muoiono migli­aia di volte prima dei vent’anni. Se questo appro­fondisce l’individuazione, la crescita, la con­sapev­olezza, si tratta anche di tragedie tremende, e come tali vanno piante. Fare dei des­can­sos vuol dire guardare la pro­pria esistenza e seg­nare dove sono avvenute le pic­cole e le grandi morti.

 

L’istinto offeso e la collera: è nec­es­sario fare rispettare con­fini ben pre­cisi e dare risposte ferme. Una donna può avere dif­fi­coltà a lib­er­are la collera anche quando le intral­cia la vita. Sof­fer­marsi sui traumi serve per arrivare alla gua­ri­gione, ma alla fine le ferite devono essere sutu­rate, diventare cica­trici.

 

L’insabbiamento in una rab­bia antica: quando una donna ha dif­fi­coltà a las­ciar sbol­lire la rab­bia, spesso è per­ché la usa per sen­tirsi più forte. Ma la collera con­tinua bru­cia l’energia pri­maria. La foga della collera non va con­fusa con la vita appas­sion­ata. E’ una difesa che costa molto man­tenere.

C’è un modo di uscirne: il per­dono.

 

Le quat­tro fasi del per­dono:

1– PRENDERE LE DISTANZE: è bene allon­ta­narsi, non pen­sare per un po’ alla per­sona o all’evento. Ci las­ci­amo uno spazio per raf­forzarci, per godere di altre felic­ità.

2– ASTENERSI: evitare il cas­tigo. Avere pazienza, resistere, incanalare l’emozione. Prati­care la gen­erosità.

3– DIMENTICARE: las­ciare andare, allentare la presa, in par­ti­co­lare nella memo­ria. Rel­e­gare la ques­tione sullo sfondo, rifi­u­tando di rac­cogliere il mate­ri­ale infi­amma­bile. Non fomen­tarsi con pen­sieri, immag­ini, emozioni ripet­i­tivi. Abban­donare la prat­ica di osses­sion­arsi, creare un pae­sag­gio nuovo, una vita nuova e nuove espe­rienze a cui pen­sare.

4– PERDONARE: il per­dono “defin­i­tivo” non sig­nifica resa, è la deci­sione con­scia di smet­terla di nutrire il risen­ti­mento, di rin­un­ciare alla rap­pre­saglia. Sig­nifica rin­un­ciare non alla pro­tezione, ma alla freddezza.