Le donne di Ravensbruck

RAVENSBRUCK

 

Riflessioni sul libro di Lidia Beccara Rolfi, A. Maria Bruzzone- “Le donne di Ravensbruck” Einaudi, 1978

“Ravensbruck, come tutti i campi di stermino, è strutturato in modo non dissimile dalle città, e dalle società, in cui siamo abituati a vivere. La popolazione delle deportate è divisa in classi, che sono tenute lontane le une dalle altre in conformità a questa divisione. Ci sono le “sottoproletarie”, le “proletarie”, le “borghesi”. I sopravvissuti dai lager nazisti trovarono al ritorno in patria una condizione di vita non abbastanza diversa da quella che lasciavano: la corsa feroce al potere e ai beni materiali di tanti che al momento del pericolo erano stati rintanati al sicuro, il rientro graduale nelle loro posizioni privilegiate degli autori delle sciagure che avevano colpito gran parte dell’umanità, ingiustizie e diseguaglianze non scalfite dalla Liberazione, gli ex deportati abbandonati a se stessi.”

I Lager non sono mai scomparsi.
Sono semmai più raffinati ed efficaci. Anche nelle società cosiddette democratiche ne esistono tracce più o meno evidenti,mai accidentali e casuali: gli ospedali psichiatrici, i bretotrofi, i ricoveri per vecchi, i riformatori, le carceri l’esercito, le fabbriche, chi ha tutto e troppi che non hanno nulla. Lo sfruttamento schiavistico di masse sterminate di manodopera e l’annientamento degli improduttivi è il frutto di un disegno razionale tutto interno alla logica capitalistica, l’approdo coerente di un regime sorto per la difesa del privilegio. E oggi: ancora le guerre, i campi profughi, il muro di Tijuana e quello per rinchiudere i palestinesi, le bidonvilles e le periferie delle grandi metropoli, l’Africa, masse di diseredati lasciati a se stessi, accalcati a frugare nella spazzatura, in mezzo a morbi e malattie, immigrati usati come manodopera a basso costo e per costruire un “nemico” che alimenti la paura e faccia vivere tutti nel terrore , i lager- come giustamente li abbiamo chiamati subito- per gli immigrati: legge Turco- Napolitano- (loro, i democratici, li chiamano Centri di Permanenza Temporanea ecc.) Spesso nei discorsi ufficiali e un po’ pomposi sui lager si sente dire: “perché non si ripeta”. Invece non è mai finito: i presupposti del lager sono dappertutto, un pianeta che è come un lager, con privilegi di pochi e grosse masse di persone da utilizzare per fare profitto, di cui a nessuno importa la sorte, la vita, le condizioni perché facilmente sostituibili. Quanti siamo, 6miliardi???? –anche con il pianeta, la terra, la natura succede così, ma da quello non si torna indietro. Cercare nuovi modi di resistenza. La resistenza dentro ai lager ci può forse dare delle indicazioni, perché forse il lager e il suo modo di “ragionare”- niente a che fare con l’irrazionalità, ma un progetto coerente- è quello che più assomiglia alla vita del globo nel momento attuale. Resistenza umana. E resistenza non solo umana, perché forse è venuto il momento anche di non considerare la nostra specie il centro dell’universo, di mettersi un po’ da parte, di non voler più assomigliare agli dei, di fermarsi dal fabbricare e produrre, di non “progredire” più. Resistenza per mantenersi sensibili. Ma resistenza reale, che inceppi i meccanismi. Se tante cose nelle tante storie che ho letto di queste donne che hanno combattuto durante la Resistenza sono legate a un’epoca e se perfino alcune mi sembrano cose che fanno parte anch’esse di un sistema che rifiuto- per esempio questa loro pazzesca etica del lavoro, l’orgoglio di lavorare in una grande fabbrica come la FIAT, sono cose incomprensibili per me che sono cresciuta politicamente all’ombra del rifiuto del lavoro, intendendo come lavoro non l’attività umana, ma il lavoro coatto e alienato, cose comprensibili solo se legate a quel contesto storico (il lavoro per le donne è stato senz’altro portatore di indipendenza e autonomia), ma pericolose oggi.

Oppure la fede cieca e l’obbedienza al partito che si trova in alcune di loro. O questo concetto di “patria”, sempre comprensibile in quel momento ma foriero di nazionalismo e chiusura in altri contesti. C’è qualcosa (molto) invece che ci parla anche oggi. Sono le cose forse più universalmente umane? O è forse al contrario il ribadire che ci sono delle classi sociali, il ricordarci che la lotta è di classe? O tutte e due le cose. È la ribellione, il non arrendersi alla prepotenza, lo spirito di libertà che anima molte di loro quello che mi tocca di più. Mi piace quando dicono “l’idea”. È l’agire, il non sottrarsi alla necessità di agire. Sarebbe bello non dover parlare ancora di resistenza, ma di qualcosa di più: costruzione di una vita diversa. Ma qui ci troviamo, ancora a resistere, a combattere contro poteri forti, reali e materiali. Che sono sempre gli stessi, ma anche diversi. Le risposte che vanno cercate sono metodi per destrutturare e distruggere questi poteri, l’alternativa violenza-non violenza è un falso problema, anche questo ci dicono queste donne. Il problema è invece trovare modi efficaci. Dicono che usare la violenza significa diventare come il potere che si combatte. Le storie, i destini, le parole e il sentimento di queste donne sembrano smentirlo. Per loro agire è stata semplicemente una necessità. Forse è invece il ricercare potere quello che ci può rendere simili al potere e far tornare la ruota al punto di partenza. Se c’è qualcosa da mettere in discussione della storia del novecento, per quel che riguarda la nostra parte, non è questo (falso) problema dei metodi più o meno violenti, è invece, secondo me, la questione del potere, delle gerarchie, del centralismo, del partito, del militarismo, dell’obbedienza, della necessità di avere dei capi, della rappresentanza. E tocca purtroppo ancora ribadire che una cosa è la violenza del carnefice e un’altra quella di chi si ribella alla carneficina. Il passato ci interessa per le sue connessioni con il presente e per l’ombra che getta sul futuro.

I racconti delle sopravvissute

Lidia Beccaria Rolfi:

Ravensbruck è l’unico lager nazista esclusivamente femminile. È stato costruito all’inizio del ’39 e si trova a 80 km a nord di Berlino, sulla riva del lago di Furstenberg. Le prime 867 deportate sono tutte tedesche. Sono comuniste, socialdemocratiche,

antinaziste in genere, o appartenenti ai testimoni di Geova, setta pacifica e contraria al regime della violenza. All’inizio lo scopo del campo è quello di “rieducare” attraverso la disciplina, la pulizia e il lavoro. I letti sono tutti uguali, ogni armadio è uguale all’altro, gamella e bicchiere devono brillare come specchi., gli sgabelli devono essere allineati al centimetro, il pavimento lavato più volte al giorno, i letti rifatti con precisione assoluta. Il lavoro è lavoro inutile, come ammucchiare per otto ore dune di sabbia e il giorno dopo spianarle per altre otto ore. Ogni minima infrazione al regolamento è punita severamente. Nell’estate del ’39 arriva il primo trasporto di zingare con bambini, poi via via arrivano austriache, cecoslovacche, polacche, olandesi, norvegesi. Fra di loro alcune ebree e molte testimoni di Geova. Nel ’41 l’organizzazione SS scopre che il lavoro rieducativo può diventare anche produttivo. Si stabilisce un rapporto economico-commerciale fra l’industria tedesca e l’amministrazione SS dei campi. Le deportate di Ravensbruck vengono affittate ad industrie e fattorie. L’industriale SS Opitz impone da subito 12 ore di lavoro ininterrotto al giorno, il turno di notte e ottiene l’aumento

costante della produzione con il terrore. Le più deboli e le più anziane divengono materiale non utilizzabile. Si iniziano le selezioni, i “trasporti neri”, così verranno chiamati i trasporti destinati al gas. I Lager diventano campi di sterminio per mezzo del lavoro. All’inizio del ’43 arrivano numerosi trasporti soprattutto dalla Russia. Arriva anche, il 30 giugno del ’44, il primo trasporto di italiane, 14 in tutto. Ravensbruck è circondata da un muro altissimo, su cui corrono i fili dell’alta tensione, agli angoli ci sono torrette di guardia con le mitragliatrici puntate. All’interno una città soffocata e compressa, senza un filo d’erba, senza un albero, con i servizi essenziali: cucina, ospedale da campo, prigione e crematorio, con due grandi aree industriali periferiche e abitazioni costruite a misura del sistema che ha bisogno di ammassare il maggior numero di schiave nel minor spazio possibile per comprimere i costi e aumentare i profitti. Una città dormitorio che, nella sua feroce funzionalità della produzione, ricorda le nostre città industriali. Il cerimoniale dell’arrivo al campo è sempre lo stesso: inizia con una sosta d’attesa, che serve per aumentare la tensione, che dura fino al mattino successivo. Al mattino le deportate devono spogliarsi nude, lasciare tutti gli

effetti personali, sono rapate, frugate, a volte perquisite nelle parti più intime, avviate alle docce e poi spinte fuori, ad asciugarsi sotto il sole o la neve. Prima la divisa era a strisce grigie e blu, ma nel ’44 è ormai un lusso concesso alle vecchie del campo. Le prigioniere vengono rivestite con stracci, con una grossa croce dipinta davanti e di dietro. Questi stracci sono la divisa d’obbligo delle deportate in quarantena, condannano le ultime arrivate a una condizione di sottoproletariato. Per l’abbigliamento non si fa questione di numero o di taglie. Le scarpe possono avere tacchi diversi, essere due destre o due sinistre, purchè siano due. Pettine, spazzolino, fazzoletti, pannolini, forcine, ago, ecc. sono sottratti come inutili. La mancanza di tutto occupa nei primi giorni tutte le energie delle nuove arrivate, la ricerca impegna tutto il tempo e non lascia riflettere sulla realtà concentrazionaria, quando ci sarebbero ancora le energie per pensare. Il mio trasposto è assegnato al blocco 24. I block sono costruzioni di legno incatramato, divisi in due Stube, in ognuna delle quali ci sono un refettorio, un dormitorio, tre lavabi e tre latrine. La blockowa e la stubowa sono le responsabili rispettivamente del block e della Stuba, entrambe sono deportate.

Il refettorio è così affollato che le deportate si accalcano anche sotto e sopra i tavoli, pigiate in piedi, senza poter fare un gesto e un movimento. Le gamelle non sono sufficienti per tutte, occorre aspettare che il primo turno finisca per afferrarne una al volo e mettersi in coda con la gamella sporca. La sbobba è una brodaglia insipida e dolciastra, molto liquida, che dobbiamo mangiare senza cucchiaio. Il leccare la minestra come i cani avvilisce, fa sentire bestie molto più di altre cose. La logica del sistema vuole proprio questo: ridurre le deportate alla condizione di bestie da lavoro docili e ubbidienti. Imparo a leccare la minestra nella gamella sporca, usata prima da una sconosciuta. Lecco la zuppa immonda fin dal primo giorno. Il dormitorio è completamente occupato da letti a castello a tre piani, lo spazio tra i piani è così poco che da sedute le prigioniere battono la testa contro le assi. Ogni letto, non più largo di 70, 80 cm, è destinato a due o anche tre deportate per posto. Ricordano all’aspetto i ripiani per i bachi da seta: li ricordano anche nel brusio ininterrotto di larve umane che da essi si leva, li ricordano soprattutto nella puzza insopportabile che emana da centinaia di corpi mal lavati. Nonostante l’ambiente mi addormento di colpo, dopo quattro giorni di vagone bestiame e una notte passata nel locale delle docce. Per la città concentrazionaria quarantena vuol dire soprattutto allenamento alle situazioni impossibili. Fin dal primo giorno le deportate si adeguano, non tanto per paura, quanto perché il pianeta su cui sono catapultate non gli permette, almeno all’inizio, di riflettere, di pensare, di analizzare lucidamente la situazione, sono soggiogate dall’atmosfera assurda e grottesca del blocco. La giornata nel blocco inizia alle 3,30 con il fischio della sirena. In mezz’ora bisogna scendere dal letto, infilarsi il vestito, rifare il letto alla perfezione secondo il regolamento, andare a lavarsi, fare la coda alla latrina e schierarsi, dieci per dieci, sulla Strasse davanti al blocco. Nei primi giorni è impossibile compiere tutte le operazioni; si va all’appello senza lavarsi e si rimanda. Rinunciare a lavarsi quotidianamente è il primo gradino della disumanizzazione, ma poche se ne rendono conto. L’appello del mattino è una delle tante torture non torture del campo. Costringe a rimanere in piedi in ranghi di dieci per ore e ore. L’appello si svolge in posizione di attenti, sotto la pioggia, la neve o il vento. All’appello è proibito muoversi, parlare con le compagne, accoccolarsi quando le gambe non reggono più , battere i piedi per riscaldarsi, avere il petto ricoperto di un pezzo di carta rubata per difendersi dal freddo. Dopo la prima mezz’ora diventa una tortura.

Il cervello si svuota, le gambe si gonfiano, i piedi fanno male, dolori atroci corrono per tutti i muscoli. L’appello a Ravensbruck, dove si addestra psicologicamente la manodopera destinata a lavorare, produrre e rendere nell’industria tedesca, è molto più lungo che non quello dei sottocampi di lavoro dell’industria stessa. Occorre un certo periodo di addestramento per distruggere nelle persone ogni volontà di resistenza e opposizione e per ridurle in schiavi docili, disponibili per qualsiasi tipo di lavoro: l’appello è uno dei mezzi per raggiungere lo scopo.’, ‘Quando la quarantena vera e propria è finita si può partire per un trasporto, se vi è richiesta urgente di manodopera, oppure la quarantena può prolungarsi, in attesa di destinazione. Le deportate in questo caso sono trasferite in nuovi blocchi e diventano Verfugbar, disponibili. Durante la quarantena vengono tenute divise dalla popolazione stabile del campo e vengono impiegate solo nelle corvèe di lavoro della vita quotidiana normale, oppure avviate a lavori inutili, come quello della sabbia. Il lavoro consiste nel prendere una palata di sabbia nel mucchietto di sinistra e buttarlo in quello di destra dove la compagna di fianco esegue la stessa operazione. La sabbia viaggia in tondo e torna al punto di partenza. La deportata che non sa reggere il ritmo viene picchiata con le mani o con il frustino.

Anche questo lavoro senza senso ha uno scopo: la vita inattiva delle deportate in attesa di destinazione è temuta dalle SS, perché può trasformarsi in un’organizzazione di resistenza alla disumanizzazione e in una scuola di educazione politica. Fin dal primo giorno è possibile resistere alle violenze, se si è informate della vita del campo e dei motivi per cui il sistema adotta quei metodi, se si prendono contatti con le più anziane. Noi italiane siamo poche e disperse, e isolate da tutte le altre, impariamo a nostre spese cosa vuol dire essere cittadine di uno stato fascista. Non possiamo contare sull’aiuto e la solidarietà di nessuno e ci mancano così gli strumenti per resistere. Quando incomincio a parlare francese mi rendo conto come sia diversa la situazione di chi arrivando trova ad attenderle compagne della stessa nazionalità e fede politica. Oltre ad aiuti materiali, ricevono informazioni e consigli per affrontare la vita nel campo e non cadere nel pericolo maggiore, quello di accettare passivamente il mondo del disumano, lasciarsi andare, rinunciare anche alla lotta per la sopravvivenza. Ho visto le francesi organizzare lezioni di storia, geografia, letteratura, animazioni di gruppo con canti, recitazione, dizione di poesie, tutto in barba agli ordini e in barba alla stubowa. L’allenamento alla resistenza si esprime anche attraverso la solidarietà tra compagne dello stesso trasporto.

Le donne più anziane sono assistite, aiutate all’appello, spinte a resistere. Le più deboli moralmente sono spinte ad assumere comportamenti dignitosi, a non parlare di fame e di pidocchi, a non rimpiangere il passato. Il sistema non ha previsto tutto questo né è in grado di soffocarlo. Il sistema ha un modo solo per spezzare la volontà di resistenza delle deportate: piegarle con appelli che a volte durano un giorno intero, ammazzarle di lavoro, distruggerle fisicamente. Questa credo sia la ragione dei lavori inutili. È preferibile perdere qualche futura unità lavorativa, sempre facilmente rimpiazzabile, piuttosto che correre il rischio di trovarsi di fronte delle persone irriducibilmente nemiche e pericolose all’interno del mondo del lavoro. Ravensbruck al nostro arrivo è popolato da prigioniere provenienti da ventitre paesi d’Europa. Il comandante del campo, i suoi collaboratori, i gregari appartengono alle SS, e anche le sorveglianti donne sono SS. Al vertice della gerarchia SS che domina il campo c’è un Lagerkommandant. A capo dell’ufficio del lavoro c’è Pflaum, che ha una posizione particolare: rappresenta e cura gli interessi economici dell’Organizzazione commerciale SS, mentre il Lagerkommandant rappresenta gli interessi politici, l’aspetto ufficiale e poliziesco. Le posizioni dei due comandanti a volte sono antitetiche, in quanto gli interessi del poliziotto non sempre coincidono con quelli dell’imprenditore. Le donne SS non hanno posizioni di responsabilità, svolgono un servizio paragonabile a quello dei secondini. Sono disprezzate da tutti, sono pagate male e hanno un ritmo di lavoro molto duro. Tuttavia si compiacciono dei loro stivali, del loro frustino, della divisa che le fa sentire qualcuno. Imitano gli uomini, cercando di superarli in violenza e ferocia.

L’organizzazione interna e l’amministrazione della città è invece nelle mani delle prigioniere. Questa delega del potere è dettata da due motivi: la necessità di risparmiare forze militari necessarie sul fronte; la possibilità di addebitare alle prigioniere tutte le violenze che si consumano nel campo. Alla direzione del Lager c’è una capocampo prigioniera, la Lageralteste, alle sue dipendenze le impiegate, le blockowe e le stubowe, le kapo, responsabili dei Kommando di lavoro e le Lagerpolizei, il servizio d’ordine. Queste donne, le “borghesi”, godono di privilegi non indifferenti. All’inizio vengono reclutate tra le prigioniere colpevoli di reati comuni (i triangoli verdi, le politiche hanno il triangolo rosso), sono sempre tedesche. Quando la città cresce vengono assunte in questi posti anche delle deportate politiche, prima tedesche e poi anche di altre nazionalità che conoscono la lingua. Oltre alle funzionarie vere e proprie vi sono altre deportate che occupano posti di lavoro ambiti, come le addette alle docce, quelle che lavorano nei magazzini, nelle cucine, nei servizi stabili del campo e le artigiane. Il resto della popolazione è costituito da una massa fluttuante di proletariato e sottoproletariato.

Il proletariato lavora nelle aziende agricole, nelle fabbriche , nei laboratori, nei magazzini. La classe operaia rappresenta la classe produttiva. Il lavoro estenuante in fabbrica, la mancanza di riposo e di sonno, l’alimentazione insufficiente e il freddo distruggono facilmente le energie delle operaie-schiave, ma questo non costituisce un problema, perché la forza lavoro è rinnovabile all’infinito. Non conviene creare migliori condizioni di vita per le operaie, perché ogni miglioramento incide sui profitti. Quando le operaie non possono più produrre si selezionano e si inviano in trasporti neri alla camera a gas: così si eliminano le bocche inutili e si creano posti per le forze fresche, che continuano ad arrivare al campo. Con l’inizio del ’44 le SS iniziano deportazioni più massicce. Mentre il numero delle deportate aumenta in modo vertiginoso, i posti di lavoro rimangono pressoché uguali e le richieste di manodopera ristagnano. Ravensbruck si trova così con migliaia di schiave in eccedenza. Si crea così un sottoproletariato, una classe miserabile, sporca, pidocchiosa, coperta di stracci, destinata a diventare in brevissimo tempo materiale da distruggere, da eliminare. Fanno parte a sé i neonati e i bambini. I primi nascono qui da donne che arrivano incinte, gli altri giungono con le madri. C’è una sala parto.

Dal ’42, quando lo scopo del campo diventa il rendimento, le donne incinte sono obbligate ad abortire perché la gravidanza non disturbi la produzione. L’aborto è praticato fino all’ottavo mese e il feto viene bruciato in una stufa. Dal ’43 le gestanti possono continuare la gravidanza e partorire, ma i neonati vengono subito strangolati o annegati in un secchio davanti all madre. Poi cambiano ancora le disposizioni: i neonati possono vivere, ma niente è predisposto per permetterne la sopravvivenza. Se la madre sopravvive alle infezioni, deve arrangiarsi da sola. La morte di questi bambini, che sopraggiunge sempre dopo alcuni giorni, è ancora più triste delle piccole vittime strangolate o affogate. Nella nostra società gli anziani e gli inabili si emarginano, a Ravensbruck invece si ammazzano. Si usano i trasporti neri. Nell’estate del ’44 l’avanzata dell’armata sovietica in territorio polacco costringe i nazisti a trasferire i deportati dei campi dell’est verso i campi dell’ovest. Arrivano tra il 2 e il 30 agosto quattordicimila polacche da Auschwitz e subito dopo alcune migliaia di donne evacuate da Varsavia. Vengono cacciate come bestie sotto un’enorme tenda militare, perché nei blocchi non c’è più spazio. La tenda inghiotte una marea di donne sfinite dal viaggio, sporche, pidocchiose, assetate e affamate.

Scoppiano le epidemie e la dissenteria miete più vittime della camera a gas; il forno crematorio viene potenziato, con una terza bocca. La tenda- strumento di sterminio per morte naturale- funziona per tutto l’autunno. Per mesi ho visto le deportate sparire sotto quell’immensa cupola. Nessuno è in grado di dire quante vittime abbia ingoiato la tenda. Tuttavia essa non risolve ancora il problema, non è un mezzo razionale di eliminazione di tutte le inabili e le malate. Svolge la sua funzione senza regolarità e troppo lentamente. Si pensa di applicare l’esperimento della tenda su scala più vasta, viene vuotato un campo di rieducazione a due chilometri da Ravensbruck e il luogo diventa un campo parcheggio in attesa della morte per le deportate anziane, malate, inabili al lavoro. Le deportate vengono alloggiate mille per baracca, senza servizi igienici, sono subito messe a mezza razione di viveri e obbligate ogni giorno ad appelli di cinque, sei ore, con 20° sotto zero. Sono private di calze, maglie, sciarpe, maglie, pezze per i piedi. A mano a mano che muoiono vengono sostituite da altre.

A febbraio viene costruita una camera a gas, per accelerare i tempi. A febbraio nel campo ci sono 46.000 deportate e ai primi di aprile ve ne sono 11.000. Il 26 aprile il primo gruppo di deportate inizia l’evacuazione tra le strade della Germania sconvolta e distrutta. Molte marceranno per più di 200 chilometri prima di essere liberate. Il 30 aprile le truppe sovietiche liberano il campo dove sono rimaste solo le malate gravi. Il Lager ha bisogno, per funzionare, di alcuni servizi essenziali. La cucina è unica per tutto il Lager. Il lavoro in cucina è trai più ambiti, ma per arrivarci bisogna godere di alcune protezioni. Il Ravier è l’ospedale del campo. Vi si può essere ricoverate solo quando si ha la febbre superiore a 39,5° o quando esiste un sospetto di malattia infettiva. Al blocco 10 sono ricoverate le tubercolose e quelle considerate pazze; al blocco 9 quelle affette da ferite purulente, da piaghe incurabili, da foruncolosi, lo chiamano il blocco del pus; al Revier 2 le affette da malattie infettive, vi sono ammassate, insieme, le malate di tifo, di scarlattina, di colera, di difterite, nessuna precauzione igienica è osservata per evitare il contagio: i gabinetti sono in comune, il termometro, le gamelle e i bicchieri sono comuni. Il Revier dipende direttamente da un medico capo SS e da alcuni suoi collaboratori specializzati in settori particolari: sterilizzazione, aborti, selezioni, esperimenti chirurgici.

La sala operatoria all’inizio è usata per far abortire le tedesche che hanno concepito con uomini di razza inferiore. Successivamente serve per far abortire tutte le prigioniere che arrivano incinte per poterle sfruttare immediatamente in fabbrica. Serve anche per sterilizzare donne e bambine zingare, per impedire la riproduzione di quel gruppo etnico. E soprattutto vi si compiono esperimenti chirurgici su cavie umane. La storia di uno di questi esperimenti è nota: durante il ’42 una settantina di donne polacche, tutte giovani e in perfetta salute, sono trasferite al Revier e sottoposte ad interventi agli arti inferiori. Dalle loro gambe sono prelevate porzioni di muscolo, ossa, nervi e nelle ferite sono iniettate colture di bacilli diversi. Le operate restano lì per mesi, fra sofferenze atroci, e sono sottoposte a cure con medicinali diversi, spesso inutili, a volte mortali, oggetto di interesse \”scientifico” da parte dei loro torturatori. Quando l’interesse finisce le poche sopravvissute, con le ferite ancora aperte e purulente, sono dimesse e sistemate al blocco 32. Nel campo si muore anche di “morte naturale” con una facilità estrema.

La fame, le carenze alimentari, il freddo, la mancanza di sonno, i parassiti, la promiscuità, il lavoro forzato producono malattie, malattie che non producono febbre alta e quindi non danno diritto di essere curate al Revier. Sono stata ricoverata al Revier due volte. Una volta un mese per un paratifo. Sono vissuta in mezzo a compagne malate di tifo, varicella, risipola, colera. Non ho ricevuto cure di nessun tipo. Ho visto morire attorno a me quasi tutte le mie compagne. Ogni mattina prima dell’ora dell’appello portavano via i cadaveri e ogni giorno i letti vuoti si riempivano di nuove malate. Le dottoresse e le infermiere erano prigioniere, ci trattavano bene, anche con dolcezza. È al Revier che sento parlare per la prima volta dei trasporti neri, ma non credo ancora all’esistenza della camera a gas, o almeno non voglio crederci. Vicino all’ingresso principale ci sono gli uffici amministrativi, l’anagrafe, l’ufficio del lavoro e l’ufficio politico, dove lavorano deportate che conoscono il tedesco. Essendo a contatto con i trasporti in arrivo, possono ricevere notizie sull’andamento della guerra, su quello che avviene oltre il campo, spesso hanno la possibilità di leggere giornali. È attraverso questo canale che le deportate ricevono le notizie che corrono di blocco in blocco, di Kommando in Kommando.

Le notizie dall’esterno servono a mantenere viva la speranza, a stabilire contatti tra le deportate. Alcune impiegate approfittano della loro posizione per aiutare le compagne, avvisano quando ci sono le selezioni nei blocchi o sul lavoro, alterano i registri sostituendo il numero di una morta con quello di una viva per salvare deportate destinate ai trasporti neri o alla fucilazione. Restano comunque una classe privilegiata che non si mescola con il proletariato e il sotto proletariato e difficilmente subiscono il processo di disumanizzazione; loro, non dovendo lottare per sopravvivere, possono pensare, riflettere, continuare a resistere, rimanere persone. Non ho mai conosciuto deportate degli uffici. Le ho viste soltanto e le ho invidiate. Nella città concentrazionaria non è previsto il cimitero. C’è un forno crematorio. È in muratura, all’inizio ha due bocche, ma nel ’44 è potenziato con una terza bocca. Il camino, a partire dall’estate del ’44, fuma giorno e notte; sulla cima brilla una fiamma verdastra e il vento porta fino al campo l’odore della carne bruciata e scorie e cenere che cadono addosso. Anche il Bunker, la prigione del campo, è una costruzione in muratura, di due piani, con tante celle piccolissime, alcune senza finestra. Nel Bunker vengono rinchiuse le sabotatrici, le grandi resistenti, le condannate a morte, quelle che hanno tentato di evadere.

Nel Bunker avvengono gli intinterrogatori, le torture, le punizioni corporali. Accanto al Bunker vi è il corridoio delle fucilazioni.’,’Accanto al Bunker vi è il corridoio delle fucilazioni. Lo Strafblock invece ha una funzione di rieducazione delle ribelli con metodi e tecniche esemplari. Vi finiscono le prigioniere che hanno compiuto atti di indisciplina, che hanno rubato, che si sono ribellate. Basta un niente per esservi trasferite. Vi regna una disciplina assurda, assicurata da Aufsherin sadiche e violente e da cani affamati e inferociti; le condizioni di vita sono impossibili per la sporcizia e i parassiti; le ospiti devono svolgere i lavori più assurdi e odiosi, come la “colonna di merda”: pestare gli escrementi con i piedi nudi o impastarli a mano con la cenere del crematorio per ricavarne un ottimo fertlizzante. Il servizio di nettezza urbana funziona con un Kommando di spazzine armate di scopa e carretti. All’esterno dei blocchi ci sono i bidoni della spazzatura, ma nei blocchi del sottoproletariato sono sempre vuoti: noi non abbiamo niente da buttare, non possediamo niente. Tutti gli altri servizi che si trovano di solito in una città qui non possono trovare spazio. È una città organizzata in funzione della produzione e non può lasciare spazio per quello che non è trasformabile in lavoro produttivo. Arbeit, lavoro, è una delle prime parole della lingua tedesca che le deportate sono costrette ad imparare. Il lavoro inizia con la sirena del campo che dà la sveglia, molte ore prima del levare del sole, e continua per tutto il giorno. Quando finisce l’appello, tutte le deportate non in quarantena devono recarsi sulla Piazza del Lavoro. A mano a mano che i Kommando che lavorano all’esterno sono al completo, si avviano a passo di marcia nella botte verso il loro cantiere, la loro fabbrica, il loro posto di lavoro, sorvegliate da cani che ringhiano, dalle Aufsherin che urlano, da soldati SS che sfogano la loro rabbia. Il Kommando più numeroso lavora alla Siemens.

L’orario di lavoro è uguale per tutte: dalle 6 del mattino alle 6 di sera, con una pausa brevissima per la zuppa di mezzogiorno, che si consuma in piedi e all’aperto. Molte deportate che arrivano a Ravensbruck sono inviate dopo la quarantena in “trasporto”, cioè vendute alle industrie tedesche che ne fanno richiesta. Alcuni di questi Kommando offrono alle detenute condizioni di vita migliori; ma vi sono anche Kommandi infami: per esempio nelle officine sotterranee costruite in una miniera di sale , o nello scavo di macerie nelle città bombardate. L’industria tedesca si serve a piene mani di schiave del serbatoio di Ravensbruck. I padroni delle fabbriche vengono spesso di persona a scegliersi le schiave. Quando poi la fatica, il freddo e al fame rallentano il rendimento, le rimandano al campo, a “riposarsi”. Io, dopo vari lavori di corvée in campo, ho fatto parte del Kommando Planierung, addetto a spianare le dune per il sottocampo Siemens. Per settimane ho spalato sabbia, ho spinto vagoncini sulle rotaie, ho posato traversine e spostato rotaie. Poi sono adocchiata dalla Kapo che comanda la Kolonne delle scaricatrici dei battelli. Usiamo per il lavoro delle specie di cassette munite di quattro stanghe. Alcune deportate riempiono le cassette, altre trasportano i carichi dal lago al campo. Spesso piove, si scivola, e quando si versa il contenuto, dopo le frustate regolamentari per “sabotaggio” bisogna raccoglierlo con le mani fino all’ultimo pezzo. In tutte queste manovre a volte si riesce a strappare con i denti qualche foglia di cavolo o a dare un morso a una carota piena di terra. La fame è più forte della paura della diarrea, del mal di stomaco, del tifo.

Nella cattiva stagione si lavora con l’acqua alle caviglie e l’acqua è sempre più fredda. Durante il giorno il vestito s’inzuppa e rimane bagnato anche la notte perché non posso spogliarmi. Vivo nel blocco 23, strapieno di prigioniere in quarantena, provenienti da Auschwitz, sono miserabili più di noi.. al blocco 23 il letto è un’illusione, si cerca solo di conquistare uno spazio per stendersi a dormire. La lotta per un posto scatena scene di violenza bestiale. In questa situazione non è possibile spogliarsi. Dormo per settimane con il vestito bagnato addosso. È il periodo in cui non mi lavo più. A stento faccio la coda alla latrina. Mi trovo addosso i primi pidocchi. Imparo a non pensare più per non sprecare energie, smetto di sperare nella liberazione e di sognare la notte. Cado sempre più in basso, ho fame, ho freddo. Odio e invidio tutte quelle che hanno qualcosa più di me….E tuttavia non so rassegnarmi a morire. L’istinto di sopravvivenza mi dice che se voglio salvarmi devo uscire dal blocco 23 e trovarmi un lavoro al coperto. La Siemens diventa la mia ossessione, il mio pensiero dominante: diventa l’ultima ancora di salvezza.

Mi vesto con un vestito a righe rimasto in un armadio, gli scucio il numero vecchio, lo sostituisco con il mio, e me lo infilo sugli stracci. Ondina fa altrettanto. Il vestito a righe è importante, permette di andare a lavorare in Kommando stabili, è un segno di distinzione perché non denuncia a prima vista la condizione di sottoproletaria. Io e Ondina ci infiliamo nelle Kolonne e andiamo alla Siemens…ma il nostro colpo di testa non è riuscito, il piano è fallito, ci riconducono al blocco. Ma dopo pochi giorni chiamano i nostri numeri e raggiungiamo le Kolonne Siemens. Entriamo, questa volta ufficialmente, in fabbrica. È la prima fabbrica che vedo e mi dà un senso di angoscia, con tutte le donne vestite a righe chine sul lavoro, l’Aufseherin che passeggia nel corridoi centrale con il frustino in mano, il passo cadenzato, lo sguardo truce, alla ricerca delle più lente, le sabotatrici. Passo la prima giornata a saldarmi le mani, a pasticciare con lo stagno, a tentare di attaccare i fili con la bobina, ma concludo ben poco. Nonostante l’insuccesso mi assumono perché la mia compagna di destra, una danese che non ho mai visto prima, salda anche per me, e la sera la mia cassetta è piena di bobine. Nei giorni successivi imparo il mestiere. Il lavoro in sé non sarebbe pesante, sono le condizioni in cui lavoriamo che lo rendono tale, sono le ore di lavoro, i ritmi, la denutrizione. Le Aufseherin sono responsabili della disciplina. La direzione e l’organizzazione tecnica del lavoro dipendono invece dal personale civile.

Il lavoro si svolge in due turni: dodici ore per il turno di giorno e dodici ore di notte. Giorno e notte le schiave lavorano a pieno ritmo, senza tempi morti, nemmeno per andare alla latrina. È proibito anche parlare con le vicine, se le deportate sono sorprese a chiacchierare vengono punite, a schiaffi quando va bene, oppure con la privazione della zuppa di mezzogiorno o del pane della sera. Punizioni più gravi sono riservate a quelle che non producono abbastanza e quelle sorprese a compiere atti di sabotaggio. È considerato sabotaggio anche la rottura di una macchina che si spezza per usura o difetto di produzione. La deportata che lavora alla macchina è ritenuta responsabile e punita, a volte anche con l’impiccagione. Esiste anche il sabotaggio volontario, quando la schiava coscientemente e metodicamente rovina i pezzi e li rende inservibili. Anche il furto di pezzi di filo, di fogli di carta, di strofinacci è considerato sabotaggio, ma questo è il tipo di sabotaggio che fanno tutte. È considerato sabotaggio anche qualsiasi forma di solidarietà tra compagne. Aiutare le compagne a sopravvivere a danno della produzione, per il sistema è sabotaggio grave. A Siemens quasi tutte le deportate hanno lo stesso aspetto, a cui io cerco di uniformarmi. Esiste un’unica classe sociale, la classe proletaria, tutte lavorano in fabbrica, hanno lo stesso orario e lo stesso tipo di trattamento. Qui finalmente ho la possibilità di incominciare a conoscere qualcuna, di sentirmi parte di un gruppo. Ho un letto stabile, ho un pettine, una matita, ago e filo.

Le francesi all’inizio sono dure con me. Per i loro gusti sono ancora terribilmente sporca e soprattutto non mi perdonano di essere italiana, tuttavia mi sopportano e mi trattano correttamente. Quando capiscono che sono stata con le formazioni partigiane si sgelano, cambiano atteggiamento, mi interrogano, si informano, vogliono sapere. non mi considerano più un elemento estraneo. Monique mi spiega perché lavarsi, pettinarsi e tenersi in ordine fa parte della Resistenza in campo. Lavarsi, smacchiarsi il vestito, lavare mutande e camicie, stenderle ad asciugare, anche se è proibito, vuol dire trovare la forza di rompere, di violare gli ordini assurdi del sistema. Allenare la memoria e il cervello è un altro mezzo per resistere alla disumanizzazione. Mi costringe a disegnare, a scrivere, sollecita i miei ricordi, mi fa parlare di casa mia, della mia terra, delle mie montagne, mi riabitua alla conversazione. Soprattutto mi insegna i principi che regolano la vita comunitaria del campo. Imparo che nel campo si può rubare, ma solo al sistema. Si deve lavorare il meno possibile in fabbrica, ma non si può sfuggire alle corvée, perché sennò ricadono sulle spalle di altre compagne.

Si deve rispettare il proprio turno per la zuppa e la latrina. Adeguarmi alla sua linea mi fa fatica all’inizio, ma poi incomincia a farmi piacere, riacquisto il rispetto di me stessa. Giorno per giorno miglioro, riprendo a pensare, a parlare, a discutere. La speranza del ritorno riprende da questo momento, anche se le mie condizioni di salute peggiorano di giorno in giorno, l’avitaminosi mi ha colpita alle gambe, ho piaghe che non guariscono e si allargano sempre di più, ho una tosse insistente. Risale a questo periodo anche la mia prima formazione politica. Ascolto discussioni su Marx e sul marxismo, su Lenin e Rosa Luxemburg. Ascolto l’altra campana sulla guerra di Spagna. Discutiamo anche sul comportamento delle politiche del campo. Per molti mesi parecchie di loro hanno rifiutato di lavorare per l’industria bellica e volontariamente hanno preferito i lavori della Verfugbar a quelli della fabbrica. Solo quando la scelta è stata tra vita e morte hanno seguito il consiglio delle più anziane e sono venute a lavorare alla Siemens.

Io sono felice di essere arrivata al coperto e non mi pongo problemi di coscienza. Incomincio a capire che hanno ragione, ma non rimpiango la mia decisione: non ho la stoffa dell’eroe. E non tornerei indietro per nessun principio e nessun ideale. I rapporti tra deportati e civili avvengono solo durante le ore di lavoro e rispettano la scala gerarchica. Le operaie hanno rapporti solo con il caporeparto. Il civile esegue solo le istruzioni avute dai superiori, i civili che lavorano in fabbrica si attengono ai regolamenti, evitano i rapporti con le detenute e fingono di non vedere le loro condizioni. I “padroni” non compaiono mai sul posto di lavoro, vivono lontani. Come sempre i veri responsabili si accontentano di tirare i fili e al momento della resa dei conti lasciano i burattini a fare da capri espiatori. Quasi nessuno di loro è salito sul banco degli imputati, durante tutti i processi contro i criminali nazisti le responsabilità degli industriali volutamente non sono venute fuori. Parlare della responsabilità degli industriali voleva dire andare alle radici, fare il processo al capitalismo, trascinare sul banco degli imputati persone “rispettabili”, uomini in doppio petto intenti a rimettere in piedi le fabbriche, a ricreare una Germania economicamente potente. Si è preferito far credere che i campi di sterminio fossero esclusivamente fabbriche di morte, costruite per portare a termine la “soluzione finale del problema ebraico”. Si è taciuto che il campo di sterminio è stato soprattutto un sistema di sfruttamento di tutta la forza lavoro concentrazionaria- antinazisti, resistenti, ebrei, zingari e altri. Le fabbriche tedesche che si sono servite di tale manodopera sono state altrettante camere a gas al rallentatore.

Le deportate proletarie e sottoproletarie non ha rapporti diretti con la classe dei “signori”, con le alte gerarchie SS del campo. La maggioranza dei “signori” vende, seleziona, sevizia, ammazza a tavolino, cioè ordina de vendere, selezionare, seviziare, ammazzare. Così l’odio delle deportate, invece di rivolgersi contro i veri responsabili, colpisce solo gli esecutori, le Aufseherin, le Kapo, sono loro che picchiano, urlano, frustano, sono loro che si attirano l’odio feroce delle detenute, come i poliziotti di tutto il mondo. Ho avuto rarissimi rapporti con le Aufseherin, ho imparato fin dai primi giorni a evitarle come la peste, a nascondermi al loro passaggio. Le Aufseherin sono l’unica categoria delle SS che vive a contatto diretto con le prigioniere e le Kapo, le blockowe e le stubowe sono le loro dirette collaboratrici. Le punizioni, la paura delle punizioni, sono l’ossatura del sistema. Ogni azione, anche la più banale, è in teoria passibile di punizione, perché nel campo tutto è proibito: i pidocchi, il vestito sporco, il pezzo di carta sul petto, la maglia sotto il vestito, il sacchetto per gli effetti personali sono proibiti; sono proibiti la preghiera, la riunione di gruppi, il canto, la conversazione; è proibito accoccolarsi all’appello, sorreggersi tra compagne, sporcare la latrina, strascicare i piedi, stendere la biancheria, passeggiare per le strade del campo, frugare nei bidoni della spazzatura, bere ai rubinetti. Azioni che un giorno sono lecite possono diventare illecite il giorno dopo. Le punizioni individuali vanno dalle scudisciate e dagli schiaffi ai 25 colpi ufficiali di bastone o di nerbo di bue. Invece la punizione collettiva, che può colpire le deportate di tutta una Stube, blocco o kommando, oppure anche di tutto il campo, può limitarsi a un prolungamento dell’appello, può arrivare alla privazione di acqua e cibo per giornate intere. La paura della punizione collettiva dovrebbe, secondo i piani, dar vita a una specie di spionaggio collettivo. Questo però non è avvenuto così spesso come il sistema aveva previsto. Raramente si arriva alla denuncia della responsabile. Così il sistema non raggiunge l’obiettivo che si è proposto.

Le deportate non sono disposte a divenire spie o aguzzine. La punizione collettiva peggiore che ho subito è stato l’appello di punizione del 1° gennaio ’45. Siamo rimaste in piedi sotto la tormenta, in un giorno freddissimo, sorvegliate dai cani, per più di 12 ore, solo alle 6 di sera possiamo rientrare, ma la punizione continua per altre 48 ore concon la privazione del pane e della zuppa. Il motivo della punizione è stato tra i più banali: una deportata, nella notte, non è riuscita ad arrivare al bugliolo e ha sporcato fuori dalla porta dello Stube. Le SS cercano di domarci e dominarci con leggi e punizioni disumane. Noi, da parte nostra, abbiamo come fine ultimo la sopravvivenza e sappiamo che per sopravvivere dobbiamo imparare a violare tutte le leggi del sistema.’, ‘La violazione della legge inizia con l’appello. All’appello è proibito parlare, e invece, sottovoce, corrono le notizie su quello che succede all’esterno e all’interno del campo. L’appello è il giornale clandestino parlato del mattino. All’appello è proibito muoversi, ma come le Aufseherin girano gli occhi ci freghiamo la schiena l’una con l’altra. Abbiamo il petto coperto di carta rubata in fabbrica, abbiamo rubato gli stracci per farci fazzoletti, copricapi, paraorecchie. Le infermiere rubano i guanti dei medici SS e ne fanno tettarelle per i neonati, le lavoratrici del Betrieb rubano stoffa e ritagli per vestirli. A natale la Stube delle francesi organizza una festa. Mara sabota i condensatori. Pina inceppa la sua macchina. Io imparo a saldare male per produrre bobine che si rompono subito. Ogni giorno, ogni minuto, in ogni settore del campo le deportate infrangono la legge ed ogni giorno la legge incassa un colpo. Non ha tenuto conto dell’infinità capacità di ripresa della persona umana. L’8 aprile compio vent’anni. È una domenica, c’è il sole. Un’olandese mi porta in dono un pezzo di miele. Bice mi scrive gli auguri sul mio libriccino. Il 26 aprile usciamo, come sempre, all’appello.

Alla fine dell’appello la blockowa dà l’ordine di rimanere tutte all’aperto: usciremo dal campo e ci consiglia di portare con noi tutto quello che abbiamo perché probabilmente non ritorneremo più. Esco con tutto il mio niente: il pettine, il pezzo di sapone che mi ha regalato Bianca, i libretti di appunti e di disegni e una coperta. Questa coperta mi seguirà per tutta l’evacuazione e per tutto il viaggio di ritorno. L’ho ancora a casa. Quando ho superato la porta del campo e ho cominciato a camminare mi sono resa conto che forse avevo lasciato Ravensbruck definitivamente, ma che questo non voleva ancora dire libertà. Marciamo a colonne di duecento, trecento, senza sapere cosa vogliono fare di noi. Siamo ancora guardate da SS, basta uscire dalle file per essere azzannate dai cani. Camminiamo per giorni interi per strade gremite da uomini e donne in fuga, passando in paesi deserti, completamente abbandonati. Abbiamo camminato per circa nove giorni. Ho il ricordo della pioggia, del freddo, della fatica, forse anche della sete, ma più di tutto dei bombardamenti e dei mitragliamenti. Abbiamo sempre dormito all’addiaccio. Le scarpe mi hanno fatto uscire le vesciche nei piedi, ho dolori alla gamba insopportabili. Pina a ogni sosta passa il suo tempo a massaggiarmi la coscia e il ginocchio. Quando la colonna si disperde, Pina e io ci troviamo sole, vestite a righe in mezzo a gente civile. Abbiamo fame. A poche passi due uomini stanno addentando voracemente pezzi di carne. L’odore della carne ci fa impazzire, ci dà allucinazioni. Ci avviciniamo: parlano piemontese. È la fine della fame e della solitudine. Mangiamo con loro, dividono con noi i loro vestiti. Camminiamo per giorni e giorni mangiando patate.

Bianca Paganini Mori

Con il nostro trasporto eravamo arrivate nel campo al numero 77500. Io ebbi il numero 77399. Ogni tanto chiamavano: “Bisogna andare a passare la visita”. Nude! Per farci esaminare magari le mani e gli occhi. A casa ci avevano insegnato che neanche ai fratelli ci si poteva presentare in sottana, e lì invece nude, di fronte a tutti. Nude al freddo, sotto il nevischio, quegli uomini che ci guardavano, non come donne, ma come lavoratrici. Si lavorava sei giorni alla settimana per dodici ore, la domenica c’erano i lavori extra, questi lavori erano spesso inutili, servivano per tenerci occupate, forse per debilitarci di più. A loro non interessava che le lavoratrici fossero sane ed efficienti, in Germania c’erano milioni di deportati in eccedenza, noi eravamo manodopera che poteva essere facilmente sostituita, che si poteva perciò trattare male, quando non servivamo più potevano eliminarci e si procuravano altri schiavi. Nasce sempre la solidarietà tra coloro che soffrono., fra coloro che sono costretti a vivere in un inferno. A volte gli oppressi si scatenano contro gli altri oppressi, ma lì non vidi mai fatti del genere. Era una solidarietà fatta di poco, magari di un gesto, una parola, un cucchiaio di minestra.. era soprattutto una solidarietà di sentimenti. Solidarietà era anche parlare alla vicina di lavoro e interessarsi a lei, era aiutare la compagna che non riusciva a eseguire bene un legamento, era, infine, non fare la spia. La paura della selezione era in noi tutte. Essere selezionate significava finire nei trasporti neri e noi, se è vero che non pensavamo all’avvenire, però in fondo non volevamo nemmeno morire, e cercavamo di tutto per non morire. Era proprio come se la mia mente, per la fame forse, non potesse più ricordare. Ero come una bestia. Soffrivo terribilmente, ma il passato non esisteva più. Il presente era la sofferenza stessa. Il futuro non c’era: non saremmo più andate via dal campo. Ogni giorno vedevamo morire centinaia di persone, ogni giorno il forno crematorio bruciava tanto che la cenere si posava dappertutto. E l’odore, l’odore dei morti bruciati. Ancora oggi io devo ricevere i danni di guerra. E l’Italia è l’unica nazione che non ha dato una pensione agli ex deportati. Io dicevo un giorno a una classe che la donna fu la linfa della Resistenza, senza la donna la resistenza non ci sarebbe potuta essere. Gli uomini si sono dimenticati che alle loro spalle c’era tutto un mondo di donne che lavorarono accanto a loro e per loro e che pagarono allo stesso modo.

A Ravensbruck fra noi donne sapemmo trovare l’unione e anche la capacità di resistere e di opporci. Ci fu chi venne fucilata perché si era opposta in maniera aperta e chi faceva resistenza passiva.: non lavorare o lavorare male o lentamente. Riuscimmo anche a non dimenticare di essere donne, e ci sforzavamo di tenerci pulite il più possibile. Però devo dire anche questo: trovai nelle donne che ci comandavano una cattiveria spinta all’eccesso, forse maggiore di quella degli uomini. Quelle donne, poste in una condizione e in ruoli maschili vollero essere, anche nel male, uguali agli uomini, in realtà furono peggiori di loro.

Livia Borsi Rossi

Mio padre lavorava nella compagnia lavoratori del porto: scaricava carbone. Han cominciato le prime organizzazioni degli scaricatori. Facevano le riunioni per organizzarsi e per metter su le cooperative. Lavoravano 12 ore al giorno in fondo alle stive e quando tornavano a casa la sera non trovavano più nemmeno i loro bambini, che dormivano già. Ma si sono organizzati e hanno fatto degli scioperi. Uno sciopero è durato, mi pare 60 giorni. Era il 1902: io ero in fasce. Mio padre era un socialista, ma un socialista un po’…un socialista vigoroso, ecco. Ci ha insegnato tante cose della lotta, che ne ha fatta tanta, pover’uomo! io lo stavo ad ascoltare e sentivo di essere nata proprio per la lotta: te lo conficcano nella testa e non puoi cambiare. Nel ’25 mi sono sposata, anche mio marito era socialista e faceva lo scaricatore di porto. Io ho smesso di lavorare perché lui non voleva. Nel ’28 ho avuto un maschio, il mio Ernesto,, nel ’30 la mia Adele, che è morta nel ’45, e poi nel ’32 l’altra bambina, Gemma. Nel ’41 mi hanno fatto un processo e dovevano mandarmi al confino, ma poi mi hanno assolta. Sono anche venuti in casa, i fascisti, ma non hanno mai trovato niente.. e parlavo, parlavo sempre, contro il Fascio. Avevo cominciato a portare munizioni.

Da casa mia, passando sotto il naso ai tedeschi, portavo queste munizioni a casa di uno e andavano a finire in mano ai partigiani di città, ai gappisti. Una sera picchiano alla porta di casa e mi cercano. Erano repubblichini. Hanno preso me e mio marito. La Delina si è messa a gridare: “Non portate via la mia mamma e il mio papà!” La partenza è stata ai primi di ottobre. Eravamo centotrenta italiane. C’era anche una donna vecchia, poverina. Portava, me la ricordo, una di quelle sottane antiche tutte arricciate. Aveva dato da mangiare a dei partigiani e i fascisti l’avevano arrestata. E siamo partite. Ci hanno messe nei carri bestiame. Siamo arrivate a Ravensbruck di giorno e ci hanno lasciate tutto il giorno fuori. Poi ci hanno portate a dormire nella doccia e la mattina ci hanno visitato, nude! Ci hanno fatto anche la visita interna e ci hanno messo nella vagina della roba che bruciava dentro. Ci hanno guardato la bocca, i denti. Tutte ci si aiutava l’una con l’altra, è adesso che non ci aiutiamo più, che siamo venute cattive, ma nel dolore si sente l’affetto e ci si aiuta. Il campo dove mi hanno trasferita era a due chilometri dalla fabbrica dove ci han mandato a lavorare. la fabbrica era enorme, in muratura. In quella fabbrica facevano aereoplani. Lavoravamo 12 ore al giorno, ma c’erano anche i turni di notte. La disciplina era dura. Fra noi non potevamo parlare, le ausierke che ci sorvegliavano erano tanto cattive e ci voleva poco a prendere un calcio nel sedere, io ne ho presi tanti! A noialtre ritornare a Ravensbruck faceva paura: se non si lavorava ci rimandavano lì. Io avevo paura per la Delina, che era grande. Io non le avevo insegnato tante cose, perché avevo paura a spiegarle le brutture della vita: non avevo mai detto niente ai miei bambini dei pericoli cui andavano incontro, e per quello avevo paura. Così dicevo a Sant’Antonio che li tenesse distanti dalle cattive tentazioni.

E pregavo santo Spedito: “Fate che finisca presto la guerra e che ritorniamo tutti a casa”. Adesso non prego più, non posso più pregare la Madonna, perché se a una ha fatto la grazia, come dicono, e a un’altra non l’ha fatta, vuol dire che fa quello che vuole anche lei. In chiesa non ci vado e non credo a quello che dicono i preti, perché sono falsi come Giuda. La mia fede ce l’ho, ma me la faccio io, con la mia coscienza. Non avevamo più le mestruazioni, nessuna le aveva più. Se capitava che qualcuna vedeva un gocciolino di sangue, si metteva a ballare. Le polacche in principio non ci potevano vedere noi italiane, perché dicevano che eravamo fasciste. Poi abbiamo cominciato a far capire che eravamo delle antifascistee le polacche alla fine ci volevano bene. io ho tante lettere delle compagne di Varsavia che mi hanno scritto. Mi hanno messa a pulire i cessi, a pelare le patate in cucina. E io rubavo. Delle volte c’erano anche delle carote e io le rubavo e ne davo anche alle mie compagne. Ultimamente da mangiare non ce n’era più, né patate né carote né niente. Allora le polacche andavano a raccogliere le ortiche nei campi e facevano un brodo di ortiche e rape rosse. Ma poi si correva al cesso, a me cominciava a venire la diarrea, l’enterite.’, ‘Poi è venuta l’evacuazione, ci hanno fatto marciare venti giorni. E se ci fermavamo caricavano subito il mitra per sparare. Camminavamo tutto il giorno. Ci toccava anche spingere i carretti. …..Siamo arrivati a Genova. Avevo i pantaloni a righe dell’ospedale, la zebra, un ciuffetto di capelli legati con lo spago, ciabatte di pezza tutta rotta, un fagottino, e facevo pietà……

Le donne mi dicono. “Livia, fatti coraggio, è la Delina che è morta”. Io non ho visto più niente. Piangevo che credevo di impazzire, di morire. Mia figlia Gemma, la più piccola, l’ho trovata che era così grande. L’avevo lasciata piccola. Poi è venuto mio figlio e mi ha abbracciato. Delina è morta da una pallottola fascista, in un grosso combattimento mentre portava la roba ai partigiani. Mio marito è morto in Germania, è stato a Flossenburg e a Hersbruck. So che m’hanno detto che gli è venuto il tifo petecchiale, che è finito nel forno crematorio. Mi son messa a lavorare alla San Giorgio: pulivo i cessi, pulivo gli uffici. Non avevo forza., era poco che ero ritornata di là, sarò stata venti chili quando sono tornata. Eppure avevo bisogno di lavorare. Questa è stata la ricompensa che ho avuto; dopo aver aiutato la guerra di liberazione, questa è stata la ricompensa. La ricompensa che hanno dato ai deportati. E quando sono tornata, se raccontavo cos’era il campo, mi guardavano come per dire: “Questa qui è scema, questa qui inventa”. Questa è tutta la mia vita

Lina e Nella Baroncini

Nella- io avevo 18 anni quando mi hanno arrestata, quindi una grande preparazione politica non l’avevo. In famiglia eravamo tre figlie. I miei genitori non erano sposati in chiesa. Mio padre era anticlericale. Nostro padre veniva dalla campagna ed era un operaio.

Per molti anni in tre andavamo a scuola, e nostro padre era solo lui che lavorava. Lina- durante la guerra eravamo impiegate. In contatto con i compagni siamo entrate dopo l’8 settembre, per via di nostro padre. Papà era socialista dal ’20. Piano piano ci vennero i collegamenti. Siamo state proprio noi ragazze che volevamo fa r qualcosa. “Oh, mi piacerebbe fare la staffetta e andare anch’io in montagna” dicevo. Nella- noi facevamo lavoro di stampa. Battevamo a macchina i pezzi. Andavamo a portare il materiale di stampa a Medicina, Imola, Ponte Ronca. Una volta tenemmo delle armi in cantina. Lina- la spiata a mio padre venne dal posto dove lavorava, all’Oare. Nella perquisizione trovarono solo le macchine da scrivere, un pugno di manifesti e della carta bianca. Nella- quella mattina ci trovavamo a casa tutte e quattro, noi donne.

Fui io ad andare ad aprire la porta e vidi mio padre in mezzo a due SS. Lina- ci fecero vestire, ci caricarono tutti insieme su una macchina grande e ci portarono subito via. Ci portarono al comando delle SS. Cominciarono gli interrogatori, giorno e notte. Una volta mio padre lo torturarono tutta la notte, io ero nella cantina chiusa, non vedevo niente, però sentivo. E loro mi vennero ad aprire la cantina, mi presero e mi portarono davanti a lui, lui era là, non stava neanche in piedi era buttato in terra che si lamentava, aveva la faccia tumefatta, e tutto il corpo. Lo avevano denudato e gli avevano fatto certe torture che han fatto anche gli americani nel Vietnam, l’avevano legato mani e piedi e lo tiravano su e giù con una carrucola, su e poi giù di colpo, e lo picchiavano sui genitali. Negli interrogatori picchiavano anche me, nelle gambe, nella schiena. Volevano sapere chi dirigeva, i nomi, una cosa e un’altra. Un bel giorno i tedeschi decisero: mi portarono a casa a prendere della roba, della biancheria. Forse era già deciso che ci avrebbero mandato in Germania. Senza processo, senza sentenza, senza dirci dove ci portavano, un bel giorno ci fecero partire. Siamo rimasti tre mesi in un campo di smistamento a Fossoli, tutti insieme. C’erano già ebrei, anche loro famiglie intere, si aspettava. Nella- nostro padre partì alla fine di luglio, con l’ultimo trasporto degli uomini. E noi fummo l’ultimo scaglione di donne, il 2 agosto. Lina- partimmo in camion aperti, noi quattro donne e c’erano altre famiglie, ebrei.

Noi siamo rimaste insieme, forse perchè eravamo politiche e le politiche le portavano a Ravensbruck., mentre gli ebrei li hanno separati. Abbiamo viaggiato 4 giorni, perché il 6 arriviamo a Berlino. Poi, sempre nello stesso vagone, siamo arrivate direttamente a Ravensbruck. Nella- ci misero dentro le docce. Quello che ricordo sono i cadaveri che vedevamo Lina- cadaveri viventi Nella- scheletri con gli occhi fuori dalla testa. C’era qualcuna che andava a cercare in mezzo ai rifiuti. Noi eravamo ancora ben pasciute. Sembrava una cosa possibile che si dovesse arrivare a quel punto. C’erano francesi, polacche, russe. Anche delle tedesche politiche. Io ricordo quel periodo, che alla mattina dopo l’appello ci portavano per le visite varie, nude, tutti i giorni. Guai se una teneva le mutande! Ricordo sempre la mamma che, poveretta, si vergognava, tanto più che aveva una certa età e la mentalità di una che viene dalla campagna. Poi, alla fine magari ci guardavano soltanto la bocca. Dopo la quarantena ci portarono nelle baracche definitive. Noi siamo riuscite a rimanere insieme.

Lina- in principio non abbiamo trovato subito il posto da dormire. I castelli erano di legno a tre piani, quelli da caserme insomma, in ogni piazza, che era strettissima, avrebbe dovuto starci una persona, ma lì ce ne stavano due e anche di più. I pagliericci erano mezzi vuoti e si stava sul legno, soprattutto se si capitava nel punto dove due piazze si avvicinavano. Nella- capitai in un castello di mezzo a tre piazze, erano già in sei e dovevo far la settima. Il quel castello c’era anche una Lagerpolizei. Faccio per salire a mi sono sentita arrivare addosso un fracco di botte. Allora mi sono messa lì in terra, accanto alla mamma. Lina- i primo giorni c’erano queste difficoltà: si andava in un posto, non ti volevano; si cercava da un’altra parte, ma era lo stesso. Nella- noi non siamo mai state schizzinose e avevamo fame, ma la zuppa era immangiabile, perché era fatta di rape legnose, conservate sotto terra, e poi d’inverno gelate e bollite, senza sale. La maggioranza erano cadaveri viventi. Quello che siamo diventate un po’ tutte, dopo. Di biancheria mi ricordo che avevo solo un paio di mutande, e giravo con queste mutande in mano, quando le lavavo, finchè non si erano asciugate, o me le mettevo da asciugare. Lina- il tempo era passato e avevamo cominciato a cercare di procurarci qualcosa da vestire. Lì si poteva solo col pane, al mercato nero del campo. Le disgraziate compravano la roba col pane, l’unico pezzo di pane che ci davano. Nella- io sapevo del Bunker. E mi ricordo di aver visto qualcuna con delle grandi cicatrici alle gambe, e una senza una gamba, e mi dissero che erano stati esperimenti che avevano fatto Lina- molti trasporti li lasciavano anche all’aperto lungo il muro di cinta, per giorni interi, ed era già freddo.

Si sentiva anche sparare, dal tunnel della fucilazione, che era tra le cucine e il forno crematorio. Nella- la mamma negli ultimi tempi all’appello non si reggeva più in piedi, fuori, con il freddo, non riusciva neanche a respirare. La blockowa cercava di aiutarci e la fece prendere nell’infermeria, anche se non aveva la febbre. Una sera siamo riuscite ad andare dentro a vederla, era in una cuccia lurida nei castelli della fila di mezzo. Delirava. Ebbe un dolore fortissimo in un momento, che poi le passò. E parlava, parlava, parlava, in fretta, a scatti. Ma ci riconosceva. La mattina dopo era morta. Le morte le ammucchiavano, denudate, le buttavano su un carretto e le portavano via: quel carretto, carico, che andava verso il forno crematorio, lo vedevamo sempre passare. Aveva 51 anni perché era del ’93. Lina- la Iole era anche lei in un’infermeria. Lei era molto affettuosa, molto sensibile, molto emotiva. Perciò quando la mamma è morta non gliel’abbiamo detto, e lei non lo ha mai saputo. ……….. Ci dissero che mio padre era partito in trasporto ed era finito nei forni crematori. Con la Croce Rossa abbiamo poi avuto un atto di morte, con la data della sua morte, il 3 gennaio. Nella- La prima volta che sono andata a Mathausen, nel ’60, visitammo il campo e poi ci portarono al cimitero e lì trovammo il registro. Sfogliando vidi: “Baroncini Adelchi, morto al castello di Hartheim”. Finchè parlo con chi è stato nel campo, so che capisce quello che dico. Ma in ufficio, per esempio, delle volte quando se ne parla, a parte il fatto che ti compatiscono, ecco che penso: “ma come fanno a sapere, a conoscere a fondo cos’era?”. E allora cerco di parlarne il meno possibile, parlo quando mi chiedono, quando mi ci tirano.

La deportazione è sempre rimasta un po’ da parte. E bisogna anche protestare contro le cose false che si dicono della deportazione: a vedere certi film pare che la deportazione delle donne sia stata andare a finire nei casini dei tedeschi! Ravensbruck non era questo. Lina- proprio le donne sono state meno riconosciute. È vero che ce n’erano di meno, nella Resistenza, a dirigere, a organizzare, ma non a lavorare, a aiutare. Nella- e hanno pagato più degli uomini, forse più degli uomini. Eppure al ritorno noi abbiamo trovato la diffidenza perché eravamo donne. Lina- facemmo al domanda per ottenere il riconoscimento dell’invalidità di guerra. Ci mandarono alla visita all’Ospedale militare, e lì ti spogliavano tra gli uomini, con i militari che entravano e uscivano. Mi dissero che ero idonea a tutti i servizi, e mi risero anche dietro. Possibile che ai raggi non si vedesse che avevo avuto una pleurite bilaterale? Nella- io ho avuto l’invalidità di guerra. Ogni tanto vado al dispensario per il controllo, e ogni volta fanno un sorrisino a sentire: partigiana combattente. Lina- ci capita di sentirci dire ancora adesso: “ma era vostro padre partigiano, non voi”. Nella- e invece no. non è stato nostro padre a chiederci di fare quel poco che abbiamo fatto. Noi eravamo responsabili, avevamo deciso noi, spontaneamente. Lina- Anche se non eravamo molto politicizzate, anche se era una scelta emotiva. E ci siamo anche sentite dire: “Ma voi non avete combattuto, non avete usato le armi”. Non abbiamo usato le armi, ma si combatte con tante armi: un manifesto, un giornale, uno scritto, anche una macchina da scrivere era un’arma